Era determinata: questa fu la prima impressione. In maniera imprecisa, corressi subito il tiro.
Le confezioni fioccavano nel carrello a ripetizione. Però subito prevaleva in lei il ripensamento, annunciato da un vezzo di cui non era probabilmente consapevole. Con una mossa veloce del dito indice riportava un’inesistente ciocca ribelle dietro l’orecchio. Poi, con la stessa mano aperta, si pettinava all’indietro, a piccoli scatti.
Quando una donna intende dare un taglio alla propria vita, notai, inizia solitamente dai capelli, la parte più volatile del suo essere. Si badi bene: non avevo alcun indizio che la ragazza del supermercato volesse apportare il minimo mutamento nella sua esistenza.
Certo, il nostro matrimonio non era il paradiso in terra. Giulia mi accusava di essere un poveraccio, di non saper nemmeno far fruttare la laurea in filosofia. E poi la mia gelosia la soffocava, così diceva. Ma una furiosa litigata aveva sempre appianato ogni divergenza. L’attrazione fisica colmava le restanti incomprensioni. Era successo anche la sera prima.
Seguire i movimenti di Giulia dalla telecamera della postazione di sorveglianza era il mio modo segreto di amarla. Quel pomeriggio pensava fossi ad allenarmi, come accadeva tutti i lunedì, e quindi spiarla mi eccitava ancora di più, sapendo che lei non lo sospettava affatto.
Giulia si toccava i capelli e partiva con la danza dell’indecisione: la mano che saettava nel carrello, l’estrazione chirurgica dell’intruso – un vaso di cetrioli, stavolta – e lo sguardo che trapassava gli altri clienti fino a individuare il punto esatto dello scaffale nel quale riporre l’oggetto scartato. Mi ricordava il fare e disfare della tela di Penelope. Forse Giulia era svogliata o, semplicemente, in preda al suo solito nervosismo.
Ero assorto nel sezionare mia moglie come fosse l’insetto inerme sotto un potente microscopio, quando la sirena dell’allarme mi lacerò le orecchie. Scattai in piedi per istinto e corsi fuori dal mio ufficio, verso le corsie del supermercato.
Una figura imponente mi si parò innanzi: pareva un guerriero di quelli che a scuola mettono nelle pagine dedicate a Shakespeare. Aveva l’elmo piumato, un’armatura metallica cesellata di fino e sul volto si notavano solo i giganteschi baffi spioventi e il folto pizzo nero. Una maschera. Niente di strano, era Carnevale.
Da sotto la corazza, anziché la spada, il guerriero estrasse però una pistola, molto poco cinquecentesca e per di più priva del tappo rosso. Me la puntò al petto da un paio di metri di distanza. Cercai con gli occhi mia moglie: se quella era una rapina, dovevo proteggere l’unica donna che avessi mai amato.
Come evocata, Giulia comparve al mio fianco. In mano teneva ancora il vaso maxi dei cetrioli. Le feci cenno di scostarsi dalla linea di tiro. Mi mossi lentamente, perché il guerriero non pensasse che volevo dare inizio a una sparatoria.
Pur nella tensione del momento, ebbi la freddezza di rilevare il silenzio che aveva zittito perfino la radio del supermercato, i clienti del tardo pomeriggio invernale immobilizzati come statuine sullo sfondo del presepio, la fastidiosa luce dei neon ad allontanare il buio che filtrava dalle vetrate dietro le casse.
Al corso mi avevano insegnato che reagire era la cosa peggiore: non sai mai con chi hai a che fare; questo magari era una balordo e si sarebbe accontentato di qualche banconota per andarsene. Bastava solo parlargli con calma.
Ma, prima che potessi dire una parola, Giulia agì. Scagliò i sottaceti addosso al guerriero, il quale preso alla sprovvista lasciò cadere la pistola a terra. Mia moglie, raccogliendo l’arma, urlò Sei un deficiente, cosa aspetti?, cui fece eco un Ma tesoro… che non era uscito dalla mia bocca.
Ciò che accadde dopo è cronaca. Giulia, esibendo una voce metallica che non le conoscevo, intimò al cavaliere di prelevare l’incasso. Poi mi guardò sprezzante: Tu non sai cos’è l’amore. Il dolore pungente delle sue parole fu mitigato dal calore che iniziò a diffondersi nel mio corpo. Lo sparo, quello no che non l’avevo sentito.
Alessandro Zaltron
Alessandro Zaltron. Scrittore di cronache sentimentali, giornalista gentiluomo. Ha pubblicato vari libri, fra cui Bestiario di auguri di fine millennio (1999, Millennium, con Cristiano Seganfreddo), Riceviamo e volentieri (2007, Foschi), Piccole memorie dalla Grande guerra (2008, Canova, con i fotografi Loris Menegazzi, Colin Dutton, Arcangelo Piai e Giovanni Simeone), Treviso 101 (2010, Sime Books).
www.alessandrozaltron.com
giovedì 21 ottobre 2010
Siamo già in ritardo per la cerimonia. Io pestolo sull’uscio mentre lo guardo aggiustarsi lentamente la cravatta di seta che gli ho regalato per il nostro anniversario. é bellissimo. Ma in quel momento lo potrei strozzare con quella cravatta perché se arriviamo tardi al matrimonio mi perderò la sfilata di abiti delle invitate, altro che carnevale di Venezia. Oggi infatti si sposa la mia amica Anna, conosciuta sui banchi del liceo, quando ancora eravamo dei pulcini smarriti in cerca della nostra personalità. Che ricordi, le ho sempre invidiato quelle forme così femminili che abbinate alla sua simpatia facevano impazzire i maschietti, quei maschietti di cui parlavamo per ore ed ore al telefono. Che ricordi, sento già il nodo alla gola e mi infilo un altro pacchetto di fazzoletti in tasca. Finalmente saliamo in macchina, lui guida forte per arrivare fino alla villa per le strade di collina. Ora il nodo alla gola si sta trasferendo allo stomaco e ho paura di rivedere la mia colazione sotto altra forma perché non voglio sciupare il mio abito, saranno tutti bellissimi alla cerimonia.
Arriviamo, una curva secca per entrare nel portone e scoprire che non c’è quasi più posto dove parcheggiare. Mi infastidisco, siamo in ritardo, ho fatto tutto di corsa stamattina e ora siamo bloccati nel parcheggio a pochi passi dalla scalinata d’ingresso. Troviamo parcheggio in fondo in fondo, sull’erba, e mentre valuto se mi si sporcheranno le scarpe di vernice nuove, lui mi prende la mano e mi sussurra “Tesoro, vorrei che un giorno anche noi due potessimo finalmente sposarci, lo sai vero?” Lo guardo dolcemente negli occhi e gli sussurro “Luca, amore, anche io lo vorrei. Intanto per oggi mi puoi prestare la tua cravatta? Non ho fatto la barba per la fretta e mi sento terribilmente sciatto”.
Giulia Cignacco
Arriviamo, una curva secca per entrare nel portone e scoprire che non c’è quasi più posto dove parcheggiare. Mi infastidisco, siamo in ritardo, ho fatto tutto di corsa stamattina e ora siamo bloccati nel parcheggio a pochi passi dalla scalinata d’ingresso. Troviamo parcheggio in fondo in fondo, sull’erba, e mentre valuto se mi si sporcheranno le scarpe di vernice nuove, lui mi prende la mano e mi sussurra “Tesoro, vorrei che un giorno anche noi due potessimo finalmente sposarci, lo sai vero?” Lo guardo dolcemente negli occhi e gli sussurro “Luca, amore, anche io lo vorrei. Intanto per oggi mi puoi prestare la tua cravatta? Non ho fatto la barba per la fretta e mi sento terribilmente sciatto”.
Giulia Cignacco
Giulia Cignacco è nata nel 1984 a Vicenza, dove risiede. Dopo essersi
diplomata al Liceo Scientifico si è iscritta a Scienze dell’Architettura presso
l’Università Iuav di Venezia, laureandosi alla triennale con votazione 106/110.
Dopo un tirocinio come graphic designer presso la sede operativa di Coin
department store, viene selezionata per l’iscrizione al corso di laurea magistrale
in design, ovvero comunicazione visive e multimediali presso l’Università
Iuav di Venezia. è laureanda del Prof. Carlo Vinti, con una tesi monografica
su Heinz Waibl, allievo di Max Huber.
Attualmente collabora con Weme, il blog dell’Università Iuav di Venezia e con il
blog sushit.net scrivendo articoli che riguardano il design e l’illustrazione.
diplomata al Liceo Scientifico si è iscritta a Scienze dell’Architettura presso
l’Università Iuav di Venezia, laureandosi alla triennale con votazione 106/110.
Dopo un tirocinio come graphic designer presso la sede operativa di Coin
department store, viene selezionata per l’iscrizione al corso di laurea magistrale
in design, ovvero comunicazione visive e multimediali presso l’Università
Iuav di Venezia. è laureanda del Prof. Carlo Vinti, con una tesi monografica
su Heinz Waibl, allievo di Max Huber.
Attualmente collabora con Weme, il blog dell’Università Iuav di Venezia e con il
blog sushit.net scrivendo articoli che riguardano il design e l’illustrazione.
"Villa da Porto? E dov'è Villa da Porto? Dio, dove mi mandano adesso?"
In agenzia mi hanno appena detto che a Montorso Vicentino vogliono mettere su un ufficio stampa. Comunicati, rapporti con i giornalisti, solita roba insomma.
Bello, penso.
Ci dovresti andare questo fine settimana, mi precisano.
Poco male. Quei soldi mi servono. E Gianna? Quella dell'altra sera? Chi l'ha più sentita?
Sabato mattina. Un freddo della madonna. Piove.
Davanti alle scalinate che portano all'entrata principale della villa dipinta di giallo, mi aspettano una signora di mezz'età e una ragazza.
Lei (si presenta, è del Comune) mi stringe subito la mano e si dirige verso le grandi scalinate.
Sbracciandosi indica il portico, le colonne, le statue. Cerco di seguirla e di prendere qualche appunto mentale, ma avverto la silenziosa presenza alle mie spalle che sale le scale a qualche passo da me. Con la borsa a tracolla, un cappotto nero e i capelli stretti in una crocchia dietro la nuca, la ragazza non ha mai parlato.
Mi concentro sulla vivace addetta del Comune e sul suo progredire di parole. Progetti, concorsi, workshop di scrittura...vogliono organizzare perfino un ballo in maschera!
"Sapete...Giulietta e Romeo! Conoscete la storia? Lei ama lui, lui ama lei, poi la tragedia, il sangue! E sapete dove è nata quella storia? Qui, qui è nata! Venite, venite a vedere!".
Arrivati in cima oltrepassiamo quella che doveva essere un tempo l'entrata principale, adesso tappata da spesse porte di legno. La sala è fredda, umida, il soffitto almeno tre piani, su un lato il ritratto d'epoca di un uomo con l'armatura.
"Eccolo, Luigi da Porto! Era un signore sapete, ed è lui, lui che scrisse Giulietta e Romeo! Che notizia vero? Scriva, scriva! Questo dobbiamo dirlo sui giornali!".
Con la coda dell'occhio cerco di rintracciare la ragazza. È davanti al ritratto, e di tanto in tanto alza la testa verso l'alto, forse per cercare l'ispirazione. Poi scrive velocemente.
Mi ricorda una di quelle signore di paese che ai funerali si stringono in abiti scuri e avvolgono la testa in poveri veli, come la vecchia usanza vuole.
A lei manca solo il velo. Quel cappotto nero le dà un'aria così malinconica. Quanti anni avrà? 25? 26? Forse di più.
Tento l'approccio.
"Allora" inizio con l'imbarazzo di un adolescente "Giulietta e Romeo eh? Chi l'avrebbe detto..."
Abbozzo un sorriso. Il suo sguardo, sempre rivolto al quadernino, mi colpisce dritto in faccia. Non c'è ostilità, né scherno. Cos'è allora? Stupore?
"Sì, chi l'avrebbe detto..."
Cala di nuovo il silenzio. Il lamento di un colombo riempie la stanza. Dio, questo posto mette i brividi.
Tento di nuovo.
"Ettore, comunque, piacere".
Lei estrae una mano da una manica del cappotto. "Claudia".
"Sei qui anche tu per lavoro? Lavori per un'agenzia?"
"No, sono una studentessa. Arte, studio arte. Villa da Porto...sai, la faccio come tesi".
"Ah..interessante!"
"Già..."
Il silenzio ripiomba di nuovo. Dio sono un completo disastro!
Cerco nella memoria qualche reminiscenza dal liceo, com'erano le colonne? Ionico, dorico e...? ma Claudia si guarda ancora un po' attorno, scrive qualcosa. Poi si gira, borbotta un "Ciao allora" poco convinto e se ne va.
Il mattino dopo Claudia è già davanti all'entrata che aspetta. Il cappotto è lo stesso, il maglione anche.
Teresa (questo il nome dell'addetta del Comune) ci apre la porta. Nella sala c'è un lungo tavolo, spine elettriche e diffusori di calore che ieri non c'erano.
Potete lavorare qui, ci dice Teresa prima di schizzare via.
Accomodatasi su una sedia, Claudia comincia subito a picchiettare forte i tasti sulla tastiera del tuo portatile.
Io provo a concentrarmi sul mio comunicato stampa, ma mi scopro a spiare lo schermo dove lei ogni tanto solleva lo sguardo. In alto lampeggia quello che penso essere il titolo della tesi: "VILLA DA PORTO: LA GENESI SEGRETA DI ROMEO E GIULIETTA".
Non riesco a starmene zitto.
"Ah Romeo e Giulietta. Sei una romantica allora".
Voleva essere una battuta, ma mi suona come un insulto. È un attimo, infatti, e subito mi accordo del gelo che c'è nei suoi occhi. Se potesse mi insulterebbe, non lo fa per cortesia.
"In realtà è l'argomento che piaceva di più al mio relatore".
Non so perchè, ma insisto di nuovo.
"Non ti piace Shakespeare?".
"Sì, ma fosse per me avrei portato l'Enrico VIII. Sovrani, palazzi, niente sospiri, nessuna questione di cuore..."
"Ma anche nell'Enrico VIII ci sono intrigo, passione...in fondo tutte le storie parlano d'amore...di che cosa parliamo se non di quello?"
"Ah guarda, abbiamo un romantico d'altri tempo...chi l'avrebbe detto". Una risposta secca, un'altro sguardo raggelante, poi torna a battere sulla tastiera.
Chiuso il discorso.
Mentre penso alla figura da idiota che ho appena incassato, mi trovo a fissare la sua nuca, lì appena al di sotto dell'attaccatura dei capelli. All'inizio penso sia l'effetto delle luci soffuse, ma poi mi rendo che è la sua pelle, più scura, segnata. Un livido. Che da dietro sparisce nel collo del maglione ma senza nascondersi del tutto.
Lei si gira di scatto.
Io pieno di vergogna distolgo gli occhi. Ma non abbastanza velocemente.
"Non è stato nessuno" dice lei, per giustificare più se stessa che qualcun altro.
"Sì certo..."
"È solo che non mi piacciono le storie d'amore, tutto qua..."
"Ma sì, chiaro..."
"L'amore non ti può piacere o non piacere, giusto? È come il cibo, lo devi assaggiare. Gli altri possono raccontarti per ore di quanto buono sia il cioccolato fuso sopra la panna cotta, ma se hai mai l'occasione di assaggiarla, resterà il dolce più buono del mondo, ma solo per gli altri...e poi te l'ho detto, non potevo dire di no al mio relatore..."
Volevo balbettare qualcosa, ma ero bloccato. Cosa si fa in queste situazioni? Si dice "mi dispiace"? Ma mi dispiace per cosa, poi? Lei per me è quasi una sconosciuta.
Raccolgo i miei fogli e faccio per alzarmi.
"Sai" mi dice lei fermandomi "Dopo, mi ha chiesto di sposarlo".
Per la prima volta, la guardo dritto negli occhi.
"E tu?"
Esita un attimo. "Non lo so"
Non mi muovo, il cuore mi pulsa nelle tempie.
Lei si stringe nelle spalle.
"In fondo ho solo 21 anni..."
"Già..."
Allora appoggio i fogli sul tavolo e la guardo di nuovo.
"Senti" le dico "Ti andrebbe un caffè?"
La sento respirare profondamente.
"Sì, sì..perchè no?"
E per la prima volta da quando l'ho vista ieri nel parcheggio, sorride.
Valeria Tonella
In agenzia mi hanno appena detto che a Montorso Vicentino vogliono mettere su un ufficio stampa. Comunicati, rapporti con i giornalisti, solita roba insomma.
Bello, penso.
Ci dovresti andare questo fine settimana, mi precisano.
Poco male. Quei soldi mi servono. E Gianna? Quella dell'altra sera? Chi l'ha più sentita?
Sabato mattina. Un freddo della madonna. Piove.
Davanti alle scalinate che portano all'entrata principale della villa dipinta di giallo, mi aspettano una signora di mezz'età e una ragazza.
Lei (si presenta, è del Comune) mi stringe subito la mano e si dirige verso le grandi scalinate.
Sbracciandosi indica il portico, le colonne, le statue. Cerco di seguirla e di prendere qualche appunto mentale, ma avverto la silenziosa presenza alle mie spalle che sale le scale a qualche passo da me. Con la borsa a tracolla, un cappotto nero e i capelli stretti in una crocchia dietro la nuca, la ragazza non ha mai parlato.
Mi concentro sulla vivace addetta del Comune e sul suo progredire di parole. Progetti, concorsi, workshop di scrittura...vogliono organizzare perfino un ballo in maschera!
"Sapete...Giulietta e Romeo! Conoscete la storia? Lei ama lui, lui ama lei, poi la tragedia, il sangue! E sapete dove è nata quella storia? Qui, qui è nata! Venite, venite a vedere!".
Arrivati in cima oltrepassiamo quella che doveva essere un tempo l'entrata principale, adesso tappata da spesse porte di legno. La sala è fredda, umida, il soffitto almeno tre piani, su un lato il ritratto d'epoca di un uomo con l'armatura.
"Eccolo, Luigi da Porto! Era un signore sapete, ed è lui, lui che scrisse Giulietta e Romeo! Che notizia vero? Scriva, scriva! Questo dobbiamo dirlo sui giornali!".
Con la coda dell'occhio cerco di rintracciare la ragazza. È davanti al ritratto, e di tanto in tanto alza la testa verso l'alto, forse per cercare l'ispirazione. Poi scrive velocemente.
Mi ricorda una di quelle signore di paese che ai funerali si stringono in abiti scuri e avvolgono la testa in poveri veli, come la vecchia usanza vuole.
A lei manca solo il velo. Quel cappotto nero le dà un'aria così malinconica. Quanti anni avrà? 25? 26? Forse di più.
Tento l'approccio.
"Allora" inizio con l'imbarazzo di un adolescente "Giulietta e Romeo eh? Chi l'avrebbe detto..."
Abbozzo un sorriso. Il suo sguardo, sempre rivolto al quadernino, mi colpisce dritto in faccia. Non c'è ostilità, né scherno. Cos'è allora? Stupore?
"Sì, chi l'avrebbe detto..."
Cala di nuovo il silenzio. Il lamento di un colombo riempie la stanza. Dio, questo posto mette i brividi.
Tento di nuovo.
"Ettore, comunque, piacere".
Lei estrae una mano da una manica del cappotto. "Claudia".
"Sei qui anche tu per lavoro? Lavori per un'agenzia?"
"No, sono una studentessa. Arte, studio arte. Villa da Porto...sai, la faccio come tesi".
"Ah..interessante!"
"Già..."
Il silenzio ripiomba di nuovo. Dio sono un completo disastro!
Cerco nella memoria qualche reminiscenza dal liceo, com'erano le colonne? Ionico, dorico e...? ma Claudia si guarda ancora un po' attorno, scrive qualcosa. Poi si gira, borbotta un "Ciao allora" poco convinto e se ne va.
Il mattino dopo Claudia è già davanti all'entrata che aspetta. Il cappotto è lo stesso, il maglione anche.
Teresa (questo il nome dell'addetta del Comune) ci apre la porta. Nella sala c'è un lungo tavolo, spine elettriche e diffusori di calore che ieri non c'erano.
Potete lavorare qui, ci dice Teresa prima di schizzare via.
Accomodatasi su una sedia, Claudia comincia subito a picchiettare forte i tasti sulla tastiera del tuo portatile.
Io provo a concentrarmi sul mio comunicato stampa, ma mi scopro a spiare lo schermo dove lei ogni tanto solleva lo sguardo. In alto lampeggia quello che penso essere il titolo della tesi: "VILLA DA PORTO: LA GENESI SEGRETA DI ROMEO E GIULIETTA".
Non riesco a starmene zitto.
"Ah Romeo e Giulietta. Sei una romantica allora".
Voleva essere una battuta, ma mi suona come un insulto. È un attimo, infatti, e subito mi accordo del gelo che c'è nei suoi occhi. Se potesse mi insulterebbe, non lo fa per cortesia.
"In realtà è l'argomento che piaceva di più al mio relatore".
Non so perchè, ma insisto di nuovo.
"Non ti piace Shakespeare?".
"Sì, ma fosse per me avrei portato l'Enrico VIII. Sovrani, palazzi, niente sospiri, nessuna questione di cuore..."
"Ma anche nell'Enrico VIII ci sono intrigo, passione...in fondo tutte le storie parlano d'amore...di che cosa parliamo se non di quello?"
"Ah guarda, abbiamo un romantico d'altri tempo...chi l'avrebbe detto". Una risposta secca, un'altro sguardo raggelante, poi torna a battere sulla tastiera.
Chiuso il discorso.
Mentre penso alla figura da idiota che ho appena incassato, mi trovo a fissare la sua nuca, lì appena al di sotto dell'attaccatura dei capelli. All'inizio penso sia l'effetto delle luci soffuse, ma poi mi rendo che è la sua pelle, più scura, segnata. Un livido. Che da dietro sparisce nel collo del maglione ma senza nascondersi del tutto.
Lei si gira di scatto.
Io pieno di vergogna distolgo gli occhi. Ma non abbastanza velocemente.
"Non è stato nessuno" dice lei, per giustificare più se stessa che qualcun altro.
"Sì certo..."
"È solo che non mi piacciono le storie d'amore, tutto qua..."
"Ma sì, chiaro..."
"L'amore non ti può piacere o non piacere, giusto? È come il cibo, lo devi assaggiare. Gli altri possono raccontarti per ore di quanto buono sia il cioccolato fuso sopra la panna cotta, ma se hai mai l'occasione di assaggiarla, resterà il dolce più buono del mondo, ma solo per gli altri...e poi te l'ho detto, non potevo dire di no al mio relatore..."
Volevo balbettare qualcosa, ma ero bloccato. Cosa si fa in queste situazioni? Si dice "mi dispiace"? Ma mi dispiace per cosa, poi? Lei per me è quasi una sconosciuta.
Raccolgo i miei fogli e faccio per alzarmi.
"Sai" mi dice lei fermandomi "Dopo, mi ha chiesto di sposarlo".
Per la prima volta, la guardo dritto negli occhi.
"E tu?"
Esita un attimo. "Non lo so"
Non mi muovo, il cuore mi pulsa nelle tempie.
Lei si stringe nelle spalle.
"In fondo ho solo 21 anni..."
"Già..."
Allora appoggio i fogli sul tavolo e la guardo di nuovo.
"Senti" le dico "Ti andrebbe un caffè?"
La sento respirare profondamente.
"Sì, sì..perchè no?"
E per la prima volta da quando l'ho vista ieri nel parcheggio, sorride.
Valeria Tonella
Villa
La mamma mi ha detto che papà è in viaggio per lavoro e non sa quando tornerà; io ogni giorno lo aspetto, perché mi porterà dei regali. Nel frattempo i miei zii vengono a darle una mano perché anche l’ultimo servo, il signor Aliseo, se ne è andato.
Fino a due settimane fa non sapevo di avere così tanti zii: ogni sera se ne presenta uno diverso e un paio hanno anche la pelle nera. Quando suona il campanello, di solito io sono già a letto, ma talvolta qualcuno arriva prima e la mamma me li presenta: lei cambia colore, quasi come il rossetto fresco sulle sue labbra, e loro mi sorridono nervosamente. Non capisco perché i grandi si vergognino di me, ma forse confondo il loro imbarazzo con l’affetto.
In ogni caso, prima di addormentarmi, aspetto che la mamma salga per darmi il latte. Mi porta un enorme bicchiere di vetro che fatico a tenere tra le mani perché scotta. La mamma ci versa qualche goccia magica che mi farà dormire, così i mostri non potranno farmi del male.
Ieri notte, però, ho avuto paura: mi sono svegliato di soprassalto e ho sentito la mamma urlare più volte. Anche lo zio ogni tanto ansimava e diceva parole che io non conosco, ma mi sembravano brutte. Mi aspettavo che da un momento all’altro la porta si spalancasse e lunghi artigli affilati mi uccidessero, ma non è successo niente.
Così mi sono alzato e ho seguito la luce che si infilava sotto le pesanti tende rosse alla fine del corridoio. Anche se il grande lampadario del salone era stato venduto, riuscivo a vedere la porta della stanza degli ospiti e l’immenso quadro del nonno-nonno, con il suo cappello di ferro e piume. Io gli ho fatto segno di stare zitto.
“Mamma?” ho chiamato due o tre volte, sperando che i mostri non mi sentissero.
Ci sono stati dei rumori e dopo la mamma è uscita di corsa dalla camera degli ospiti sistemandosi il vestito e i capelli.
“Cosa c’è, caro? Perché non dormi?”
“Mamma, ho sete...” ho bisbigliato.
La mamma voleva guardare l’orologio al polso, ma non c’era.
“Se torni subito a letto, tra poco ti porto un altro bicchiere di latte.” Invece di obbedire, mi sono nascosto nell’ombra.
La mamma ha accompagnato lo zio alla porta, prendendo accordi per una prossima visita; lui voleva abbracciarla, ma lei lo ha scostato. Attorno alle loro labbra vedevo le tracce di quella che doveva essere stata una deliziosa torta alla crema di lamponi o fragole. Speravo ne fosse avanzata per colazione. Peccato. Magari quando tornerà papà organizzeremo una grande festa con tutti gli zii, così ci saranno tanti dolci anche per me.
Lorenzo Comberlato
Nato a Schio il 7/12/1970.
Insegnante di Lettere presso la Scuola Secondaria di Primo Grado di Piovene Rocchette.
Fino a due settimane fa non sapevo di avere così tanti zii: ogni sera se ne presenta uno diverso e un paio hanno anche la pelle nera. Quando suona il campanello, di solito io sono già a letto, ma talvolta qualcuno arriva prima e la mamma me li presenta: lei cambia colore, quasi come il rossetto fresco sulle sue labbra, e loro mi sorridono nervosamente. Non capisco perché i grandi si vergognino di me, ma forse confondo il loro imbarazzo con l’affetto.
In ogni caso, prima di addormentarmi, aspetto che la mamma salga per darmi il latte. Mi porta un enorme bicchiere di vetro che fatico a tenere tra le mani perché scotta. La mamma ci versa qualche goccia magica che mi farà dormire, così i mostri non potranno farmi del male.
Ieri notte, però, ho avuto paura: mi sono svegliato di soprassalto e ho sentito la mamma urlare più volte. Anche lo zio ogni tanto ansimava e diceva parole che io non conosco, ma mi sembravano brutte. Mi aspettavo che da un momento all’altro la porta si spalancasse e lunghi artigli affilati mi uccidessero, ma non è successo niente.
Così mi sono alzato e ho seguito la luce che si infilava sotto le pesanti tende rosse alla fine del corridoio. Anche se il grande lampadario del salone era stato venduto, riuscivo a vedere la porta della stanza degli ospiti e l’immenso quadro del nonno-nonno, con il suo cappello di ferro e piume. Io gli ho fatto segno di stare zitto.
“Mamma?” ho chiamato due o tre volte, sperando che i mostri non mi sentissero.
Ci sono stati dei rumori e dopo la mamma è uscita di corsa dalla camera degli ospiti sistemandosi il vestito e i capelli.
“Cosa c’è, caro? Perché non dormi?”
“Mamma, ho sete...” ho bisbigliato.
La mamma voleva guardare l’orologio al polso, ma non c’era.
“Se torni subito a letto, tra poco ti porto un altro bicchiere di latte.” Invece di obbedire, mi sono nascosto nell’ombra.
La mamma ha accompagnato lo zio alla porta, prendendo accordi per una prossima visita; lui voleva abbracciarla, ma lei lo ha scostato. Attorno alle loro labbra vedevo le tracce di quella che doveva essere stata una deliziosa torta alla crema di lamponi o fragole. Speravo ne fosse avanzata per colazione. Peccato. Magari quando tornerà papà organizzeremo una grande festa con tutti gli zii, così ci saranno tanti dolci anche per me.
Lorenzo Comberlato
Nato a Schio il 7/12/1970.
Insegnante di Lettere presso la Scuola Secondaria di Primo Grado di Piovene Rocchette.
Storia di Luigino
C'era una volta Luigino, che non si lavava mai.
Aveva passato tutta l'età adulta a spalar trincee piene di gente sudata nelle Ardenne, a cospargersi di merda di bufalo per confondere Charlie sulle rive del Mekong, a sguazzare nel fango sanguinolento di Waterloo, tra i residui petroliferi a Bassora in fiamme.
Capirete anche voi che in questo modo Luigino ammassò un'enorme fortuna. Non sapendo come amministrarla da lontano, pensò bene di investire negli immobili. Si fece costruire una villa enorme, in mezzo alle casette sperdute del paesello natìo. Una cosa esagerata, davvero, ma proprio gigantesca, sproporzionata. D'altra parte aveva veramente guadagnato tanto, ad avanzare in mezzo al guano dei pipistrelli nelle caverne di Tora Bora.
Ora, Luigino s'era imbarcato nelle sue avventure perché, oltre ad essere molto portato per l'omicidio, aveva inguaiato una ragazzina, tale Giulietta. Si sarebbe chiamata Giulia, ma tutti la chiamavano "la Giulietta" perché era tutta timida, secca come un chiodo e aveva la pellagra.
Dovette sposarla. Il giorno dopo, quando lui partì, le disse "Stammi bene".
Quando tornò era già decrepito, provato dalle fatiche d'ammazzare e far bagordi nelle migliori piazzeforti d'ogni reame.
A lei, per tutti quegli anni, era rimasta solo la villa. "Che me ne faccio di tutte queste stanze?" si era detta. "Tanto più che non so neanche come passare il tempo: il figliolo m'è morto neonato, e il marito è a seviziar sconosciute a Srebrenica". E in campagna, ovviamente, non succedeva mai nulla.
In quattro e quattr'otto, andò a chiamare una decina di amiche e trasformò la villa in un bordello - il più grande della regione. Finalmente Giulietta, diventando un'imprenditrice di sé stessa, prosperò. Ora era bella in carne.
E ora Luigino tornava, annunciato in tutte le direzioni dalla sua puzza caratteristica, maturata a seguito della sua lunga carriera. Se ne veniva per la strada del ritorno con tutto il suo arsenale di armi, e anche due o tre bagagli. Ma proprio l'essenziale: giusto una mutanda di ricambio color giallo paglierino, un cotton fioc e lo scalpo di un tenente nordista. Si avvicinava e cominciava a vedere sull'orizzonte le colossali statue d'imitazione greco-romana sul tetto del suo progetto di vita, che per la prima volta avrebbe visto realizzato.
ma quando vide brillare una scritta al neon blu e rosa che diceva: "Venus Night" s'insospettì un poco.
Da parte sua Giulietta sentiva un olezzo vagamente familiare crescere costantemente. Sulle prime pensò ad una perversione un po' più particolare di qualche suo cliente.
Ma quando la puzza fu veramente insopportabile, tanto da far uscire dalle stanze impiegate e clienti tutti mezzi nudi, tanto da farli radunare intorno alla padrona nel salone d'ingresso domandandole salvezza da quella piaga tremenda, Luigino entrò.
Due puttane e tre clienti svennero sul colpo. Uno, più anziano, si accasciò rantolando e morì. Scompiglio generale, una moltitudine ignuda, che strillava e si dibatteva, con al centro Giulietta, che lo guardava con la morte negli occhi. E com'era solito fare in situazioni di panico, Luigino mise mano alla sciabola e al kalashnikov in men che non si dica.
Ma prima di far fuoco gli successe di guardare Giulietta negli occhi, forse per la prima volta. E per la prima volta nella sua vita s'innamorò.
Luigino scappò via come il vento. Andò a farsi un bagno e scrisse una storia d'amore.
Iacopo Seri
Aveva passato tutta l'età adulta a spalar trincee piene di gente sudata nelle Ardenne, a cospargersi di merda di bufalo per confondere Charlie sulle rive del Mekong, a sguazzare nel fango sanguinolento di Waterloo, tra i residui petroliferi a Bassora in fiamme.
Capirete anche voi che in questo modo Luigino ammassò un'enorme fortuna. Non sapendo come amministrarla da lontano, pensò bene di investire negli immobili. Si fece costruire una villa enorme, in mezzo alle casette sperdute del paesello natìo. Una cosa esagerata, davvero, ma proprio gigantesca, sproporzionata. D'altra parte aveva veramente guadagnato tanto, ad avanzare in mezzo al guano dei pipistrelli nelle caverne di Tora Bora.
Ora, Luigino s'era imbarcato nelle sue avventure perché, oltre ad essere molto portato per l'omicidio, aveva inguaiato una ragazzina, tale Giulietta. Si sarebbe chiamata Giulia, ma tutti la chiamavano "la Giulietta" perché era tutta timida, secca come un chiodo e aveva la pellagra.
Dovette sposarla. Il giorno dopo, quando lui partì, le disse "Stammi bene".
Quando tornò era già decrepito, provato dalle fatiche d'ammazzare e far bagordi nelle migliori piazzeforti d'ogni reame.
A lei, per tutti quegli anni, era rimasta solo la villa. "Che me ne faccio di tutte queste stanze?" si era detta. "Tanto più che non so neanche come passare il tempo: il figliolo m'è morto neonato, e il marito è a seviziar sconosciute a Srebrenica". E in campagna, ovviamente, non succedeva mai nulla.
In quattro e quattr'otto, andò a chiamare una decina di amiche e trasformò la villa in un bordello - il più grande della regione. Finalmente Giulietta, diventando un'imprenditrice di sé stessa, prosperò. Ora era bella in carne.
E ora Luigino tornava, annunciato in tutte le direzioni dalla sua puzza caratteristica, maturata a seguito della sua lunga carriera. Se ne veniva per la strada del ritorno con tutto il suo arsenale di armi, e anche due o tre bagagli. Ma proprio l'essenziale: giusto una mutanda di ricambio color giallo paglierino, un cotton fioc e lo scalpo di un tenente nordista. Si avvicinava e cominciava a vedere sull'orizzonte le colossali statue d'imitazione greco-romana sul tetto del suo progetto di vita, che per la prima volta avrebbe visto realizzato.
ma quando vide brillare una scritta al neon blu e rosa che diceva: "Venus Night" s'insospettì un poco.
Da parte sua Giulietta sentiva un olezzo vagamente familiare crescere costantemente. Sulle prime pensò ad una perversione un po' più particolare di qualche suo cliente.
Ma quando la puzza fu veramente insopportabile, tanto da far uscire dalle stanze impiegate e clienti tutti mezzi nudi, tanto da farli radunare intorno alla padrona nel salone d'ingresso domandandole salvezza da quella piaga tremenda, Luigino entrò.
Due puttane e tre clienti svennero sul colpo. Uno, più anziano, si accasciò rantolando e morì. Scompiglio generale, una moltitudine ignuda, che strillava e si dibatteva, con al centro Giulietta, che lo guardava con la morte negli occhi. E com'era solito fare in situazioni di panico, Luigino mise mano alla sciabola e al kalashnikov in men che non si dica.
Ma prima di far fuoco gli successe di guardare Giulietta negli occhi, forse per la prima volta. E per la prima volta nella sua vita s'innamorò.
Luigino scappò via come il vento. Andò a farsi un bagno e scrisse una storia d'amore.
Iacopo Seri
giulietta e il rom (favoletta demenziale)
giulietta era una preside di istituto tecnico provinciale del nord est che alla sera tornava molto stanca nella sua villa, con la testa piena di cose, e non riusciva a fare altro che sedersi sul divano e guardare la tele in stand-by. cioè, non era in stand-by la tele, ma lei, nel senso che la guardava senza realmente guardarla e seguire ma lasciandola lì come rumore di fondo, con la testa che non andava da nessuna parte. questo era il suo modo di rilassarsi dopo una giornata di lavoro.
giulietta era single e si annoiava da matti tutta sola nella sua villa.
un sabato si trovò per caso in un parco pubblico seduta su una panchina vicino ad un tipo con la pelle piuttosto scura, ma non troppo. diciamo scuretta.
due piccoli uccellini si posarono proprio davanti alla panchina.
un uccellino ruttò e l'altro, con accento romano disse: aò anvedi questo!
e volarono via.
giulietta fece un espressione di stupore e il giovane con la pelle scuretta disse: erano un passerutto e un pettirozzo, specie autoctone di questo biotopo.
giulietta ancora più stupita disse - non ti avrei dato una lira dato che sembri un rom sfaticato come tutti gli altri, ma invece ne sai a pacchi!!!
da cosa nasce cosa e i due decisero di sposarsi e andarono da more e da cordo.
nel primo ristorante, da more, li cacciarono in quanto il proprietario era un bigotto che ce l'aveva a morte con i rom ed era assolutamente contrario alle coppie miste italiana-rom.
da cordo invece li accolsero come dio comanda in quanto erano per l'integrazione e la società multirazziale.
poi cosa succede?
che il tipo rom, che sia detto tra parentesi, si chiamava rom-eo, e come già sappiamo era molto intelligente, mise in piedi strategie differenziate per inserirsi nella società di cui giulietta faceva parte e ci riuscì talmente bene che finì presto anche lui davanti alla tele in stand-by. cioè, non in stand-by la tele ma lui, che per rilassarsi dopo una lunga giornata di lavoro non riusciva a fare altro che guardare la tele con disattenzione, lasciandola scorrere come un rumore di fondo, mentre film stupidi o violenti facevano il loro corso.
uno sventurato giorno giulietta morì in un incidente tornando dall'istituto tecnico di cui era preside.
romeo si suicidò pochi giorni dopo per il dolore e siccome era molto stimato dai rom del campo nomadi da cui proveniva, per la sua intelligenza che gli aveva permesso di integrarsi perfettamente nella società del nord est, nel campo nomadi si verificò un suicidio di massa causato dal dolore per il suicidio di romeo.
oggi, nel parco del comune dove giulietta e romeo si incontrarono c'è un monumento che li ritrae seduti sulla panchina con davanti un passerutto e un pettirozzo.
quel monumento è un vero capolavoro della politica che è riuscito mettere tutti d’accordo: i progressisti sono felici perché lo considerano una giusta celebrazione della pietosa storia d’amore multietnica, e i conservatori non hanno avuto nulla da eccepire, perché a loro quel monumento ricorda che nel loro comune il problema della convivenza con i rom si è risolto da sé.
FINE
Roberto Cesaro
giulietta era single e si annoiava da matti tutta sola nella sua villa.
un sabato si trovò per caso in un parco pubblico seduta su una panchina vicino ad un tipo con la pelle piuttosto scura, ma non troppo. diciamo scuretta.
due piccoli uccellini si posarono proprio davanti alla panchina.
un uccellino ruttò e l'altro, con accento romano disse: aò anvedi questo!
e volarono via.
giulietta fece un espressione di stupore e il giovane con la pelle scuretta disse: erano un passerutto e un pettirozzo, specie autoctone di questo biotopo.
giulietta ancora più stupita disse - non ti avrei dato una lira dato che sembri un rom sfaticato come tutti gli altri, ma invece ne sai a pacchi!!!
da cosa nasce cosa e i due decisero di sposarsi e andarono da more e da cordo.
nel primo ristorante, da more, li cacciarono in quanto il proprietario era un bigotto che ce l'aveva a morte con i rom ed era assolutamente contrario alle coppie miste italiana-rom.
da cordo invece li accolsero come dio comanda in quanto erano per l'integrazione e la società multirazziale.
poi cosa succede?
che il tipo rom, che sia detto tra parentesi, si chiamava rom-eo, e come già sappiamo era molto intelligente, mise in piedi strategie differenziate per inserirsi nella società di cui giulietta faceva parte e ci riuscì talmente bene che finì presto anche lui davanti alla tele in stand-by. cioè, non in stand-by la tele ma lui, che per rilassarsi dopo una lunga giornata di lavoro non riusciva a fare altro che guardare la tele con disattenzione, lasciandola scorrere come un rumore di fondo, mentre film stupidi o violenti facevano il loro corso.
uno sventurato giorno giulietta morì in un incidente tornando dall'istituto tecnico di cui era preside.
romeo si suicidò pochi giorni dopo per il dolore e siccome era molto stimato dai rom del campo nomadi da cui proveniva, per la sua intelligenza che gli aveva permesso di integrarsi perfettamente nella società del nord est, nel campo nomadi si verificò un suicidio di massa causato dal dolore per il suicidio di romeo.
oggi, nel parco del comune dove giulietta e romeo si incontrarono c'è un monumento che li ritrae seduti sulla panchina con davanti un passerutto e un pettirozzo.
quel monumento è un vero capolavoro della politica che è riuscito mettere tutti d’accordo: i progressisti sono felici perché lo considerano una giusta celebrazione della pietosa storia d’amore multietnica, e i conservatori non hanno avuto nulla da eccepire, perché a loro quel monumento ricorda che nel loro comune il problema della convivenza con i rom si è risolto da sé.
FINE
Roberto Cesaro
Il Puzzle
Le luci erano spente. Prima di addormentarsi Luciano le chiese:
- Hai detto tu a Giulia che voglio mettere il puzzle in camera sua ?
Luisa si girò verso di lui.
- Quando abbiamo visto il puzzle nel garage, Giulia ha pensato che fosse un regalo per lei…
- Era un regalo per me. Anche la commessa al negozio mi ha chiesto se doveva fare un pacchetto...
- Ho capito che l’avevi comperato per te. Ma dicendole che era per lei ho pensato che così ci sarebbe stata lontana finché non era finito.
- Giulia non lo vuole.
- Te l’ha detto lei ?
- Oggi pomeriggio. Quando sono tornato su, dopo la lavatrice. Mi ha detto che non le piace la carta geografica. Vuole un orsetto, e mi ha mostrato la pubblicità dell’orsetto.
- Sta mattina voleva dei gattini.
- L’aveva detto anche a te ?
- Cosa ?
- Che non le piaceva la carta geografica.
- Quando siamo arrivate ha guardato la scatola. Ho provato a dirle che era per lei ma mi ha subito messo con le spalle al muro. “Perché papà non mi ha fatto aprire la scatola ?”.
- E’ proprio tua figlia.
- Cosa vuoi dire ?
- Ha carattere. Farà strada, come sua madre.
Luciano sperò che finisse qui.
- E’ anche figlia tua. Non pensi che alcune delle sue qualità le arrivino da te.
- Può darsi.
Luisa lo guardava nel buio con gli occhi aperti. Luciano le voltava le spalle, ma aveva anche lui gli occhi aperti.
- Quando sono venuto su lei mi ha chiesto cosa avevo fatto giù da basso. Lì per lì volevo dirle che avevo da sistemare il garage. Ma le ho detto che stavo facendo il puzzle.
- E lei che ti ha risposto ?
- Mi ha detto che non lo voleva in camera sua.
- Ma come te l’ha detto ?
- “Papà, non mi piace il puzzle che hai comperato.”
- Così, senza neanche grazie.
- Sì, così. Ha detto la verità. Non le insegniamo che si deve sempre dire la verità ?
- Ma le insegniamo anche che bisogna essere gentili. Che bisogna scusarsi e ringraziare.
- Forse il problema è tutto qui.
- Quale problema ?
- Che è difficile essere sinceri e non passare per maleducati.
- C’è modo e modo. E occorre che capisca che non può buttare via tutto quello che non le va, senza pensare a quelli che si sono preoccupati di comprarle qualcosa.
- Ma nessuno le aveva comprato niente.
- Cosa vuol dire ?
- Che siamo stati noi i primi a mentirle.
- Vuoi dire che sono stata io.
- Sì, ma io ti ho retto il gioco. Quindi siamo in due.
- Ma, magari tu non l’avresti fatto…
- Non lo so. Forse davvero non è bene che pensi che suo padre fa i puzzle per passare il tempo.
Luisa si alzò appoggiandosi al gomito.
- Pensi davvero che glielo abbia detto per questo ?
- No. Non lo so.
Luisa stava accendendo la luce del comodino.
- Non te la devi prendere Luisa. Non hai fatto male.
- Giulia è contenta di stare a casa con te, questo lo sai…
- E io sono contento di stare con lei…
Luisa allontanò la mano dall’interruttore.
- Le ho detto che era per lei solo perché non toccasse i pezzi e aspettasse che fosse finito…
- A ogni modo non corro rischi.
- Però finché non è finito la tua macchina sta fuori.
- Cercherò di sbrigarmi.
- Non mi è sembrata una buona idea…
- Cosa ?
- La macchina in strada per fare posto a un puzzle.
- No, forse non lo è. Ma non è una situazione irrimediabile.
- Questo lo so. Però cosa succederebbe se ti rubassero la macchina ? Come ci andresti in giro ?
- Con l’autobus, in bicicletta, a piedi. Eviterei i taxi.
- Sembra che non ti importi.
- Dormiamo, che domani devi svegliarti presto.
Dopo cena Luciano salì le scale, entrò in camera da letto e si sdraiò al buio sul tappeto con gli occhi aperti verso il soffitto. La bambina era giù a guardare la televisione, sua madre aveva finito in cucina. C’era silenzio.
Luisa andò su. Nel frattempo Filippo si era seduto sul letto e aveva acceso la luce sul comodino.
- Lo so che non è facile... Puoi dirmi che cosa c’è ?
- E’ tutto a posto.
- No, non è tutto a posto. Ma se non mi dici che problema hai, io come faccio ad aiutarti ?
- E’ tutto a posto. Mi sento bene. Grazie
- Perché mi dici “grazie” ?! Non sono mica il tuo dottore! Sono tua moglie! ...“Grazie”...Perché “grazie” ! Tu fai finta di essere gentile, ma fai così solo per allontanarmi.
- Non urlare, Luisa...la bambina...
- “Non urlare” ?! Io urlo perché mi ascolti ! Urlo perché voglio aiutarti. Cazzo, è incredibile... Cosa sto facendo...
- Cosa vuoi che ti dica ?
- “Luisa mi sento uno schifo, cosa posso fare ?” Ecco. Basterebbe.
- Lo sai che ho perso il lavoro...
- So che hai perso il posto, ma mi domando se non stai perdendo anche la testa...
- Non lo so neanch’io.
- No, tu lo sai ! Tu ti senti cambiato, non ti riconosci. Non ti stimi più. Ma non me lo vuoi dire...
- Tu vuoi schiacciarmi...
- Ecco ! E’ venuto fuori alla fine !
- Cosa “è venuto fuori” ?
- Il motivo, la causa di tutto. Il problema non è il lavoro. Il problema sono io !
- Perché tu ?
- Perché non me lo dici tu ?
- Cosa ?
- Perché non mi dici perché non mi sopporti più ?
- Io non ti ho detto che non ti sopporto più. Penso solo che, forse, non mi puoi aiutare...
- In che senso ?
- Non credo che tu abbia tempo di cercarmi un lavoro. E non sarebbe neanche giusto.
- No, il lavoro non posso trovartelo io. Ma posso chiedere...magari a un cliente... se capita l’occasione...
- Scusa, ma diresti a un cliente che tuo marito è disoccupato...
- Perché no ? ....Oddio ho capito.
- Cosa ?
- Ho capito perché sei così distante.
- E sarebbe ?
- Eccolo, di nuovo ! E’ sempre come se le cose non lo riguardassero, come se anche adesso non si parlasse di te. Sembra che siamo due dottori che parlano di un paziente. No. Qui ci sei tu di mezzo ! Davvero la sincerità non sai cosa sia...
- Luisa, cos’hai capito ?
- Ho capito che preferisci non affrontarmi o starmi lontano perché non ti senti all’altezza...Ecco, lo sapevo...ho indovinato...
- Brava
- Ma, cazzo, Luciano perché ? Cosa ti è preso ?
- Non ho detto che hai indovinato.
- Cos’è, una caccia al tesoro ? Tu fai un passo avanti e uno indietro e sei convinto che tornare indietro cancelli il passo avanti. Prima sembra una cosa e poi non vuoi ammettere... Ok ci sto. Allora torno a chiederti “cosa c’è che non va ? ho notato che qualcosa è cambiano tra di noi...”
- Penso che non troverò più un lavoro, che sarò inutile, che devo stare a casa ad allevare nostra figlia. Ma fare questo solo non mi va e non mi basta...
- A parte che tu educhi Giulia e che sono le vacche che si allevano. A parte questo non abbiamo fatto passi avanti. L’ho capito che ti serve un lavoro. Ricominciamo: tu eri dirigente, no ? Bene. Se ti dicono che ti prendono ma ti mettono a fare il venditore, cioè ti fanno partire da un grado più basso di quello di prima, tu accetti il lavoro ? In fin dei conti se il problema è che ti annoi a fare la casalinga, un lavoro dovrebbe valerne un altro... Allora accetti il lavoro da schifo ?
- Spererei in meglio ma, probabilmente, lo terrei..
- Però non saresti felice...
- No, probabilmente no... Non credo che neanche tu salteresti di gioia se ti dicessero, dopo che hai fatto l’avvocato, “se vuoi lavorare c’è un posto come cameriera. O questo o niente...”
- Sì, su questo siamo d’accordo. Ma il problema è “perché non saresti felice con un lavoro, anche di livello più basso rispetto a quello di prima, se il tuo problema è che non hai un lavoro ?”
- Perché avrei fatto un passo indietro. Non mi sembra così difficile da capire.
- Va bene. Ma c’è ancora qualcosa che non mi torna. E mi spiego. Premesso che, se occorre, bisogna adattarsi a quello che si trova, la domanda è “con un lavoro peggiore di quello che avevi saresti più felice di quanto sei adesso ?”
- Non lo so. Come faccio a saperlo ?
- No. Tu lo sai e sai che non cambierebbe niente. Mio marito non sarebbe più quello di una volta. A te servirebbe il lavoro di prima, lo capisco. Ma quello non c’è più...
- Forse non basterebbe neanche più quello...
- E cosa pretendi ? che ti facciano presidente ?
- Beh, sì, vorrei la presidenza...
- Ecco, sì, bravo... Ma cosa vorresti fare per sentirti a posto con te stesso, a tuo agio con me ? Cosa !
- Dovrei guadagnare più di te.
- ...No... non ci posso credere. Alla fine è solo un problema di soldi...
- Beh, sono importanti i soldi, no ?
- Tu stai tirando su un muro nel rapporto con tua moglie, solo perché guadagno più di te ? Tu non sopporti tua figlia, solo perché guadagno più di te ? Non ci voglio credere.
- Io non valgo niente, se non è così.
- E questa stronzata chi te l’ha messa in testa ?
- Non lo so...Ci sarò arrivato da solo.
- Mi rispondi anche ? No, non c’è una risposta a quella domanda. Ti rendi conto ? Salta la nostra relazione, la nostra famiglia. Perché ? Perché io guadagno di più.
- No, tu adesso sei la sola che guadagna.
- E allora...
- E allora io mi sento umiliato, un fallito. Io ho fallito, ecco tutto. Non è che non ti ami...
Sono i fatti a dire se hai avuto successo o no. Le prove dimostrano che il qui presente Luciano Malli di anni 37, ha perso il lavoro, accompagna la figlia a scuola e passa il tempo facendo un puzzle in garage. E il bucato.
Vai un po’ a raccontare in giro cosa fa tuo marito ! In fondo ti vergogneresti anche tu.
- Non dirlo ! Io non mi vergognerei.
- Proprio sicura ?
- Non c’è niente di male a perdere il lavoro se un’azienda chiude. E poi non sta scritto da nessuna parte che non ti troverai un altro posto.
- Ma non c’è neanche scritto che di certo lo troverò. E il nostro matrimonio resisterà a questo ?
- Dipende da noi...
- Non solo da noi. Non viviamo mica in un’isola deserta. E se i nostri amici ci propongono di andare a un ristorante, uno di quelli che frequentavamo, ma dobbiamo dire di no perché “sai, mio marito è ancora disoccupato...” Bastano davvero due cuori e una capanna ?
- Non è mai stato un problema il ristorante. Lo sai anche tu che possiamo ancora permettercelo.
- Allora grazie, perché sei disposta a offrirmi la cena.
- Sei uno stronzo, cazzo ! uno stronzo di merda ! Io non sto offrendo la cena a un estraneo. Sei mio marito. Ai mariti non si offrono le cene. Io ti amo non per il lavoro che avevi o avrai. Non me ne frega niente del lavoro.
- Sì, ma occorre essere in due per essere d’accordo. E io non la penso così. Penso che noi due, adesso più che mai, apparteniamo a due classi sociali diverse. E come se mi fossi sposato con una duchessa che mangia con venti posate e io, che uso le mani, devo fare finta di essere a mio agio.
- Tu stai impazzendo.
- Sarà... Ma io sono convinto che sto solo descrivendo la realtà.
- Cioè la realtà è che se ti lasciano a casa a trentasette anni sei un uomo finito
- Non c’è niente che mi prova il contrario, adesso...
- E la realtà sarebbe che ci vuoi trascinare tutti dentro la tua ossessione. Che non ti basta distruggere te stesso...
- Scusa ?
- Hai capito bene. Non sei mica sordo. Oggi, a pranzo...
- A pranzo cosa ?
- A pranzo a tua figlia hai detto di non andare a scuola. “Andiamo a fare un giro in bici” e roba del genere...
- Sì, poi il giro l’abbiamo fatto. Dopo la scuola.
- Sì, però hai visto cosa è successo: è bastato un attimo di distrazione e Giulia era già pronta a farmi passare un’ora d’inferno mentre la riportavo a scuola, solo perché suo padre le ha detto che tanto si può fare anche a meno di andare a scuola...
- Sì, forse non è stata una buona idea, ma sai...
- Cosa devo sapere ? ...Io non so niente. So che ti senti un fallito. Ma non vuol dire che devo passare io per quella cattiva con mia figlia, quella che dice “No, Giulia, dobbiamo andare a scuola”, andando contro a quello che ha detto suo padre. Cosa facciamo adesso ? Ci mettiamo a fare una gara per sapere se la bambina vuole più bene al papà o alla mamma ?
- Tu vuoi schiacciarmi...
- Se ormai non hai più neanche una briciola di amor proprio, almeno pensa a tua figlia ! Come la dobbiamo tirare su ? Cosa vuoi che diventi ? Le serve disciplina. Sì e no, e dobbiamo essere d’accordo. Se le dai una mano quella si prende un braccio. E se non l’hai capito, tanto vale che ti metti a fare il genitore buono...
- Va bene, ma adesso basta.
Luciano si alzò dal letto, mentre Luisa lo guardava. Scese in cucina, si versò mezzo bicchiere di prosecco e prese un cucchiaio di miele. Mentre passava Giulia gli disse “Ciao, papà”.
Luisa era salita a mettere a letto la bambina. Poi si era lavata e si era infilata a letto. Stava leggendo. Luciano era in salotto al piano terra. Spense la televisione e raggiunse le scale. Una rampa portava giù in garage, l’altra di sopra.
Cominciò a salire lentamente, senza fare rumore. Vide le luci delle due camere da letto che si incrociavano sul ballatoio, quella molto tenue del lumino acceso nella stanza della bambina e quella più chiara che usciva da camera sua. Era arrivato quasi in cima quando la luce della camera matrimoniale si spense. Luciano si fermò. Poi cominciò a scendere. Guardò il soggiorno rischiarato solo dalla luce dei lampioni che entrava dalle finestre. Scese in garage, si chiuse dietro la porta e accese l’interruttore. Entrò nella macchina di Luisa e la mise in moto. Poi si sedette al tavolino da picnic e cercò di finire il puzzle.
Filippo Lovato
- Hai detto tu a Giulia che voglio mettere il puzzle in camera sua ?
Luisa si girò verso di lui.
- Quando abbiamo visto il puzzle nel garage, Giulia ha pensato che fosse un regalo per lei…
- Era un regalo per me. Anche la commessa al negozio mi ha chiesto se doveva fare un pacchetto...
- Ho capito che l’avevi comperato per te. Ma dicendole che era per lei ho pensato che così ci sarebbe stata lontana finché non era finito.
- Giulia non lo vuole.
- Te l’ha detto lei ?
- Oggi pomeriggio. Quando sono tornato su, dopo la lavatrice. Mi ha detto che non le piace la carta geografica. Vuole un orsetto, e mi ha mostrato la pubblicità dell’orsetto.
- Sta mattina voleva dei gattini.
- L’aveva detto anche a te ?
- Cosa ?
- Che non le piaceva la carta geografica.
- Quando siamo arrivate ha guardato la scatola. Ho provato a dirle che era per lei ma mi ha subito messo con le spalle al muro. “Perché papà non mi ha fatto aprire la scatola ?”.
- E’ proprio tua figlia.
- Cosa vuoi dire ?
- Ha carattere. Farà strada, come sua madre.
Luciano sperò che finisse qui.
- E’ anche figlia tua. Non pensi che alcune delle sue qualità le arrivino da te.
- Può darsi.
Luisa lo guardava nel buio con gli occhi aperti. Luciano le voltava le spalle, ma aveva anche lui gli occhi aperti.
- Quando sono venuto su lei mi ha chiesto cosa avevo fatto giù da basso. Lì per lì volevo dirle che avevo da sistemare il garage. Ma le ho detto che stavo facendo il puzzle.
- E lei che ti ha risposto ?
- Mi ha detto che non lo voleva in camera sua.
- Ma come te l’ha detto ?
- “Papà, non mi piace il puzzle che hai comperato.”
- Così, senza neanche grazie.
- Sì, così. Ha detto la verità. Non le insegniamo che si deve sempre dire la verità ?
- Ma le insegniamo anche che bisogna essere gentili. Che bisogna scusarsi e ringraziare.
- Forse il problema è tutto qui.
- Quale problema ?
- Che è difficile essere sinceri e non passare per maleducati.
- C’è modo e modo. E occorre che capisca che non può buttare via tutto quello che non le va, senza pensare a quelli che si sono preoccupati di comprarle qualcosa.
- Ma nessuno le aveva comprato niente.
- Cosa vuol dire ?
- Che siamo stati noi i primi a mentirle.
- Vuoi dire che sono stata io.
- Sì, ma io ti ho retto il gioco. Quindi siamo in due.
- Ma, magari tu non l’avresti fatto…
- Non lo so. Forse davvero non è bene che pensi che suo padre fa i puzzle per passare il tempo.
Luisa si alzò appoggiandosi al gomito.
- Pensi davvero che glielo abbia detto per questo ?
- No. Non lo so.
Luisa stava accendendo la luce del comodino.
- Non te la devi prendere Luisa. Non hai fatto male.
- Giulia è contenta di stare a casa con te, questo lo sai…
- E io sono contento di stare con lei…
Luisa allontanò la mano dall’interruttore.
- Le ho detto che era per lei solo perché non toccasse i pezzi e aspettasse che fosse finito…
- A ogni modo non corro rischi.
- Però finché non è finito la tua macchina sta fuori.
- Cercherò di sbrigarmi.
- Non mi è sembrata una buona idea…
- Cosa ?
- La macchina in strada per fare posto a un puzzle.
- No, forse non lo è. Ma non è una situazione irrimediabile.
- Questo lo so. Però cosa succederebbe se ti rubassero la macchina ? Come ci andresti in giro ?
- Con l’autobus, in bicicletta, a piedi. Eviterei i taxi.
- Sembra che non ti importi.
- Dormiamo, che domani devi svegliarti presto.
Dopo cena Luciano salì le scale, entrò in camera da letto e si sdraiò al buio sul tappeto con gli occhi aperti verso il soffitto. La bambina era giù a guardare la televisione, sua madre aveva finito in cucina. C’era silenzio.
Luisa andò su. Nel frattempo Filippo si era seduto sul letto e aveva acceso la luce sul comodino.
- Lo so che non è facile... Puoi dirmi che cosa c’è ?
- E’ tutto a posto.
- No, non è tutto a posto. Ma se non mi dici che problema hai, io come faccio ad aiutarti ?
- E’ tutto a posto. Mi sento bene. Grazie
- Perché mi dici “grazie” ?! Non sono mica il tuo dottore! Sono tua moglie! ...“Grazie”...Perché “grazie” ! Tu fai finta di essere gentile, ma fai così solo per allontanarmi.
- Non urlare, Luisa...la bambina...
- “Non urlare” ?! Io urlo perché mi ascolti ! Urlo perché voglio aiutarti. Cazzo, è incredibile... Cosa sto facendo...
- Cosa vuoi che ti dica ?
- “Luisa mi sento uno schifo, cosa posso fare ?” Ecco. Basterebbe.
- Lo sai che ho perso il lavoro...
- So che hai perso il posto, ma mi domando se non stai perdendo anche la testa...
- Non lo so neanch’io.
- No, tu lo sai ! Tu ti senti cambiato, non ti riconosci. Non ti stimi più. Ma non me lo vuoi dire...
- Tu vuoi schiacciarmi...
- Ecco ! E’ venuto fuori alla fine !
- Cosa “è venuto fuori” ?
- Il motivo, la causa di tutto. Il problema non è il lavoro. Il problema sono io !
- Perché tu ?
- Perché non me lo dici tu ?
- Cosa ?
- Perché non mi dici perché non mi sopporti più ?
- Io non ti ho detto che non ti sopporto più. Penso solo che, forse, non mi puoi aiutare...
- In che senso ?
- Non credo che tu abbia tempo di cercarmi un lavoro. E non sarebbe neanche giusto.
- No, il lavoro non posso trovartelo io. Ma posso chiedere...magari a un cliente... se capita l’occasione...
- Scusa, ma diresti a un cliente che tuo marito è disoccupato...
- Perché no ? ....Oddio ho capito.
- Cosa ?
- Ho capito perché sei così distante.
- E sarebbe ?
- Eccolo, di nuovo ! E’ sempre come se le cose non lo riguardassero, come se anche adesso non si parlasse di te. Sembra che siamo due dottori che parlano di un paziente. No. Qui ci sei tu di mezzo ! Davvero la sincerità non sai cosa sia...
- Luisa, cos’hai capito ?
- Ho capito che preferisci non affrontarmi o starmi lontano perché non ti senti all’altezza...Ecco, lo sapevo...ho indovinato...
- Brava
- Ma, cazzo, Luciano perché ? Cosa ti è preso ?
- Non ho detto che hai indovinato.
- Cos’è, una caccia al tesoro ? Tu fai un passo avanti e uno indietro e sei convinto che tornare indietro cancelli il passo avanti. Prima sembra una cosa e poi non vuoi ammettere... Ok ci sto. Allora torno a chiederti “cosa c’è che non va ? ho notato che qualcosa è cambiano tra di noi...”
- Penso che non troverò più un lavoro, che sarò inutile, che devo stare a casa ad allevare nostra figlia. Ma fare questo solo non mi va e non mi basta...
- A parte che tu educhi Giulia e che sono le vacche che si allevano. A parte questo non abbiamo fatto passi avanti. L’ho capito che ti serve un lavoro. Ricominciamo: tu eri dirigente, no ? Bene. Se ti dicono che ti prendono ma ti mettono a fare il venditore, cioè ti fanno partire da un grado più basso di quello di prima, tu accetti il lavoro ? In fin dei conti se il problema è che ti annoi a fare la casalinga, un lavoro dovrebbe valerne un altro... Allora accetti il lavoro da schifo ?
- Spererei in meglio ma, probabilmente, lo terrei..
- Però non saresti felice...
- No, probabilmente no... Non credo che neanche tu salteresti di gioia se ti dicessero, dopo che hai fatto l’avvocato, “se vuoi lavorare c’è un posto come cameriera. O questo o niente...”
- Sì, su questo siamo d’accordo. Ma il problema è “perché non saresti felice con un lavoro, anche di livello più basso rispetto a quello di prima, se il tuo problema è che non hai un lavoro ?”
- Perché avrei fatto un passo indietro. Non mi sembra così difficile da capire.
- Va bene. Ma c’è ancora qualcosa che non mi torna. E mi spiego. Premesso che, se occorre, bisogna adattarsi a quello che si trova, la domanda è “con un lavoro peggiore di quello che avevi saresti più felice di quanto sei adesso ?”
- Non lo so. Come faccio a saperlo ?
- No. Tu lo sai e sai che non cambierebbe niente. Mio marito non sarebbe più quello di una volta. A te servirebbe il lavoro di prima, lo capisco. Ma quello non c’è più...
- Forse non basterebbe neanche più quello...
- E cosa pretendi ? che ti facciano presidente ?
- Beh, sì, vorrei la presidenza...
- Ecco, sì, bravo... Ma cosa vorresti fare per sentirti a posto con te stesso, a tuo agio con me ? Cosa !
- Dovrei guadagnare più di te.
- ...No... non ci posso credere. Alla fine è solo un problema di soldi...
- Beh, sono importanti i soldi, no ?
- Tu stai tirando su un muro nel rapporto con tua moglie, solo perché guadagno più di te ? Tu non sopporti tua figlia, solo perché guadagno più di te ? Non ci voglio credere.
- Io non valgo niente, se non è così.
- E questa stronzata chi te l’ha messa in testa ?
- Non lo so...Ci sarò arrivato da solo.
- Mi rispondi anche ? No, non c’è una risposta a quella domanda. Ti rendi conto ? Salta la nostra relazione, la nostra famiglia. Perché ? Perché io guadagno di più.
- No, tu adesso sei la sola che guadagna.
- E allora...
- E allora io mi sento umiliato, un fallito. Io ho fallito, ecco tutto. Non è che non ti ami...
Sono i fatti a dire se hai avuto successo o no. Le prove dimostrano che il qui presente Luciano Malli di anni 37, ha perso il lavoro, accompagna la figlia a scuola e passa il tempo facendo un puzzle in garage. E il bucato.
Vai un po’ a raccontare in giro cosa fa tuo marito ! In fondo ti vergogneresti anche tu.
- Non dirlo ! Io non mi vergognerei.
- Proprio sicura ?
- Non c’è niente di male a perdere il lavoro se un’azienda chiude. E poi non sta scritto da nessuna parte che non ti troverai un altro posto.
- Ma non c’è neanche scritto che di certo lo troverò. E il nostro matrimonio resisterà a questo ?
- Dipende da noi...
- Non solo da noi. Non viviamo mica in un’isola deserta. E se i nostri amici ci propongono di andare a un ristorante, uno di quelli che frequentavamo, ma dobbiamo dire di no perché “sai, mio marito è ancora disoccupato...” Bastano davvero due cuori e una capanna ?
- Non è mai stato un problema il ristorante. Lo sai anche tu che possiamo ancora permettercelo.
- Allora grazie, perché sei disposta a offrirmi la cena.
- Sei uno stronzo, cazzo ! uno stronzo di merda ! Io non sto offrendo la cena a un estraneo. Sei mio marito. Ai mariti non si offrono le cene. Io ti amo non per il lavoro che avevi o avrai. Non me ne frega niente del lavoro.
- Sì, ma occorre essere in due per essere d’accordo. E io non la penso così. Penso che noi due, adesso più che mai, apparteniamo a due classi sociali diverse. E come se mi fossi sposato con una duchessa che mangia con venti posate e io, che uso le mani, devo fare finta di essere a mio agio.
- Tu stai impazzendo.
- Sarà... Ma io sono convinto che sto solo descrivendo la realtà.
- Cioè la realtà è che se ti lasciano a casa a trentasette anni sei un uomo finito
- Non c’è niente che mi prova il contrario, adesso...
- E la realtà sarebbe che ci vuoi trascinare tutti dentro la tua ossessione. Che non ti basta distruggere te stesso...
- Scusa ?
- Hai capito bene. Non sei mica sordo. Oggi, a pranzo...
- A pranzo cosa ?
- A pranzo a tua figlia hai detto di non andare a scuola. “Andiamo a fare un giro in bici” e roba del genere...
- Sì, poi il giro l’abbiamo fatto. Dopo la scuola.
- Sì, però hai visto cosa è successo: è bastato un attimo di distrazione e Giulia era già pronta a farmi passare un’ora d’inferno mentre la riportavo a scuola, solo perché suo padre le ha detto che tanto si può fare anche a meno di andare a scuola...
- Sì, forse non è stata una buona idea, ma sai...
- Cosa devo sapere ? ...Io non so niente. So che ti senti un fallito. Ma non vuol dire che devo passare io per quella cattiva con mia figlia, quella che dice “No, Giulia, dobbiamo andare a scuola”, andando contro a quello che ha detto suo padre. Cosa facciamo adesso ? Ci mettiamo a fare una gara per sapere se la bambina vuole più bene al papà o alla mamma ?
- Tu vuoi schiacciarmi...
- Se ormai non hai più neanche una briciola di amor proprio, almeno pensa a tua figlia ! Come la dobbiamo tirare su ? Cosa vuoi che diventi ? Le serve disciplina. Sì e no, e dobbiamo essere d’accordo. Se le dai una mano quella si prende un braccio. E se non l’hai capito, tanto vale che ti metti a fare il genitore buono...
- Va bene, ma adesso basta.
Luciano si alzò dal letto, mentre Luisa lo guardava. Scese in cucina, si versò mezzo bicchiere di prosecco e prese un cucchiaio di miele. Mentre passava Giulia gli disse “Ciao, papà”.
Luisa era salita a mettere a letto la bambina. Poi si era lavata e si era infilata a letto. Stava leggendo. Luciano era in salotto al piano terra. Spense la televisione e raggiunse le scale. Una rampa portava giù in garage, l’altra di sopra.
Cominciò a salire lentamente, senza fare rumore. Vide le luci delle due camere da letto che si incrociavano sul ballatoio, quella molto tenue del lumino acceso nella stanza della bambina e quella più chiara che usciva da camera sua. Era arrivato quasi in cima quando la luce della camera matrimoniale si spense. Luciano si fermò. Poi cominciò a scendere. Guardò il soggiorno rischiarato solo dalla luce dei lampioni che entrava dalle finestre. Scese in garage, si chiuse dietro la porta e accese l’interruttore. Entrò nella macchina di Luisa e la mise in moto. Poi si sedette al tavolino da picnic e cercò di finire il puzzle.
Filippo Lovato
L’asta
- Duecentoventimila e uno... duecentoventimila e due... Nessun ripensamento, signori ?... Ultima chance.... Duecentoventimila e tre !
Il martelletto colpì il legno e il banditore, indicando l’uomo in vestito grigio nella prima fila a sinistra, disse:
- Aggiudicato al signore col numero 40 qui davanti.
I commessi sollevarono dal cavalletto il quadro con una rappresentazione di Marte e Venere sfiniti dall’amore, e lo portarono via, mentre altri due commessi impettiti, in divisa nera, erano già pronti a issare, sullo stesso cavalletto, un altro quadro, un bacio di un ragazzo e una ragazza ambiguamente androgina, che un ironico pittore inglese dell’Ottocento aveva intitolato “You kiss by the book”.
La sala d’aste, nel centro di Milano, non era piena. La platea, divisa in due dal corridoio centrale, era per buona parte seduta sul lato sinistro. A destra c’erano poche persone. Al centro della seconda fila (la prima , la terza e la quarta erano completamente vuote), sedeva un uomo anziano, asciutto, col viso scavato, gli occhi duri azzurro cielo, i capelli bianchissimi pettinati all’indietro, in doppiopetto nero, cravatta rosso sangue e camicia bianca. Aveva un fermacravatte d’oro, gemelli d’oro e un anellone con un grosso rubino, del tipo di quelli che appartengono ai cadetti di antiche casate nobiliari. Alla destra del vecchio, un ragazzo di venticinque anni, anch’egli in completo nero, folta chioma corvina, malgrado la laurea in legge a Stanford, aveva l’ingrato compito di reggere una piccola ciotola di vetro, piena di pistacchi, che doveva passare a suo nonno, ogniqualvolta riceveva un ordine secco sottovoce o un piccolo colpo alla scarpa. Ogni dieci minuti, a seconda di quanto nervoso fosse il vecchio, il brillante avvocato riceveva l’ordine, spaccava il guscio già aperto del pistacchio, metteva tre frutti nella mano sinistra di suo nonno. Il vecchio cominciava a mangiarne uno, e assaporava il piacere di frantumare la pasta della nocciolina. Masticava poco e mandava giù. Subito dopo ne prendeva un altro. E giù. I pistacchi erano il suo vizio. Non aveva mai fumato. Beveva pochi sorsi di vini pregiati e mangiava il minimo indispensabile. Aveva perso l’uso del braccio destro che pendeva inerte sul bracciolo, quindi non era più in grado di mangiare da solo i pistacchi. Anzi, in realtà, non era mai stato in grado di farlo.
Il martelletto colpì di nuovo il legno e il dipinto con il bacio fu aggiudicato per ottantatremila euro a un ometto grasso alla sinistra che sollevò i pugni come se avesse vinto una gara, un gesto che gli meritò un’occhiataccia dall’anziana signora accanto a lui, vestita in un elegante abito a fiori di seta, con un pesante bracciale d’oro e acquemarine, la chioma raccolta in uno stretto chignon e una piccola casacca di lana bianca sulle spalle. Alla sua sinistra una ragazza giovane, di diciott’anni, la accompagnava. Vestita in un abito lungo color tortora, non sembrava a suo agio. La signora anziana le sussurrò all’orecchio:
- Vedi cara, non cercare marito tra quelli che esultano per essersi accaparrati un qualsiasi oggetto durante un’asta. Nella migliore delle ipotesi sono dei cafoni. Nella peggiore pensavano che non ce l’avrebbero mai fatta e un pensiero come questo non fa ben sperare sulla reale consistenza del loro patrimonio.
La ragazza, la sua allieva preferita, annuì e, quando il viso della vecchia le si fu allontanato, sospirò.
L’anziano con i capelli bianchi a destra e la signora con il vestito a fiori sulla sinistra non avrebbero spostato le loro palette, la 22 e la 18, dalle ginocchia fino alla fine dell’asta, quando, dopo che tutti gli arredi erano stati battuti, sarebbe andata all’incanto la villa, una costruzione palladiana con timpano e colonne in un paesino della provincia vicentina.
Lui aveva esibito un passaporto inglese con il nome Mark Clemens e aveva lasciato intendere che era un ricco imprenditore attivo nel campo delle costruzioni residenziali di lusso. Ma nella sua villa di Antigua c’erano altri passaporti, uno svizzero (Henry Boyle, orafo), uno sudafricano (James J. Darkbloom, latifondista, allevatore di bestiame), uno di Hong Kong (Michael Monroe, import – esport) che, dall’annessione della colonia alla Cina, aveva utilizzato molto meno.
L’Interpol lo inseguiva con eroica caparbietà cercando di capire, ogni volta che un nuovo protagonista entrava nel gioco del traffico internazionale d’armi e droga, se quella fosse un’altra identità fittizia dell’uomo che mangiava pistacchi o se ci fosse effettivamente un altro personaggio che spostava droga tra il medio – oriente e l’occidente e armi, occultate chissà come, tra l’occidente e tutti i focolai di guerra che ardevano sul mappamondo.
Mark Clemens non si spostava quasi mai da Antigua. Lì aveva la sua base operativa. Da lì amministrava i traffici che gli rendevano milioni. Solo il suo braccio destro, in senso letterale oltre che figurato, aveva l’onore di sbucciargli i pistacchi.
La contessa Elena Clemente di Bentivoglio non era sposata. Viveva amministrando un esclusivo collegio dove una ristretta elite amante delle buone maniere e di un certo bon ton d’altri tempi, spediva le figlie a imparare a rispettare i mariti, amministrare una conversazione, preparare una cena come si deve, intrecciare fiori secchi in eleganti centrotavola e in allegre corone natalizie. La villa di Montorso era stata di proprietà della famiglia di suo cugino Enrico, morto sulle scale di quella costruzione.
La contessina Elena, durante l’estate, arrivava nel vicentino con i genitori per trascorrervi le settimane più calde dell’anno. C’erano la frescura di un parco lussureggiante e frondoso, la pace della campagna, una fontana dentro cui sguazzare durante i pomeriggi di sole spietato e un bel sambernardo scodinzolante che vi girava attorno in cerca di refrigerio. Un giorno il cugino Enrico, di ritorno da una passeggiata in bicicletta, le prese la mano e l’accompagnò sotto un tiglio.
- Che fai ?
- Elena, oh cara Elena...
- Lasciami, lasciala.
- Elena, Elena, Elena...
La abbracciò e la costrinse sul prato fermandole i polsi mentre le baciava il viso sfuggente. Esausta Elena gli cedette e le labbra si congiunsero. A quel punto i muscoli delle braccia persero forza, Enrico poté abbracciarla e ricevere l’abbraccio di lei.
Iniziò così il primo e unico amore della sua vita. Enrico era turbato da tempo dalla bellezza di quella ragazzina studiosa e immusonita, così seria e diligente, che si sedeva sempre sulla punta della sedia con la schiena perfettamente diritta e non allargava mai i gomiti quando tagliava la bistecca. Non la vedevi correre e non la vedevi ridere, perché quando rideva, non spalancava la bocca, la apriva quel tanto che era necessario e, in sovrappiù, vi passava una mano davanti, quasi avesse a vergognarsene.
Le risate scorsero in rivoli frequenti dopo quel bacio. I due si spruzzavano d’acqua, giocavano a rincorrersi per il parco. Profanarono la cappella di famiglia riempiendosi di baci e carezze, animarono le cupe volte della cantina ridendo divertiti e un bel giorno gemettero nella camera degli ospiti dove Elena aveva trasferito i libri ormai trascurati e i suoi vestiti troppo casti.
Nel primo pomeriggio di un giorno di sole radioso che pareva avere incendiato il cielo, Elena ed Enrico tornavano sazi da una passeggiata per i colli vicini. Sul portone d’ingresso Enrico l’abbracciò di nuovo per baciarla. Elena lo respinse allegramente e cominciò a correre verso la villa. Enrico subito dietro. Il cane si scosse dal sonno e li guardò attraversare il viale d’ingresso mentre le scarpe crepitavano sulla ghiaia. Enrico la riacciuffò proprio sulla sommità della scalinata d’ingresso e lei lo respinse di nuovo. Il cugino indietreggiò, perse l’equilibrio e cadde all’indietro sui gradini finendo lungo disteso alla base della rampa di scale. Elena gridò. I genitori di Enrico e i suoi si svegliarono dal riposo pomeridiano, accorsero una cameriera e un contadino e fu chiamata un’ambulanza. I dottori altro non poterono fare che constatare la morte del ragazzo per un fatale colpo alla nuca.
Elena, tra lacrime inconsolabili, raccontò che Enrico era scivolato all’indietro mentre la inseguiva su per le scale. Lei si era girata e d’improvviso aveva visto la mano che la stava acciuffando alzarsi verso il cielo, le braccia agitarsi in aria, il corpo allontanarsi e, un secondo dopo, il cadavere alla fine della scala.
Quelle stesse scale, vent’anni prima, avevano sopportato il peso di altri morti. Prima che la famiglia di Enrico acquisisse e restaurasse la villa che avrebbe venduto dopo la morte del primogenito, il salone diroccato era stato un ospedale da campo di una squadra di soldati inglesi che affiancava la resistenza italiana contro i tedeschi in ritirata.
Durante un’incursione a una colonna del Reich che recedeva verso nord il soldato inglese Peter Schoenberg, occhi azzurri e famiglia tedesca di origine ebraica emigrata dalla Germania qualche settimana dopo al notte dei cristalli, era stato ferito a braccio destro. Soccorso dal suo sergente era finito dentro la villa, su una delle trenta brande allineate ai muri del salone diroccato. Dal muro pendevano calcinacci che minacciavano di cadere sui feriti a ogni colpo di mortaio che si avvertiva in lontananza. C’era un olezzo di medicinali e un gemito sommesso e continuo. Peter Schoenberg soffrì dolori agghiaccianti quando il proiettile entrò nella carne e quando il medico cercò di estrarlo. Ebbe la febbre alta, vomitò e non mangiava nulla. Il suo sergente si prese cura di lui, e dei sette del suo reparto che erano stati feriti, con l’amorevole dedizione di un padre. Un uomo alto, buono, sempre di buon umore che aveva sostituito i pistacchi ai sigari responsabili della sua inguaribile tosse secca. Con una risata gorgogliante ordinò a ciascuno dei feriti inappetenti di mangiare i pistacchi che portava sempre con sé. Al soldato Schoenberg li preparava già sbucciati e glieli metteva in bocca, uno a uno. Peter riprese lentamente forza e maturò una grande riconoscenza per quell’uomo che l’aveva accudito e al quale, in fin dei conti, doveva la vita.
Un giorno si sentirono degli spari fuori dalla villa, sullo spiazzo davanti al colonnato. Mitragliate. I soldati inglesi di guardia e alcuni ufficiali medici caddero davanti alle colonne durante l’assalto. Il sergente uscì per aiutare, dopo aver lasciato una pistola ai feriti che potevano usarla.
Peter era disperato e impaurito, perché non sapeva sparare con la sinistra, anzi non sapeva fare nulla con la sinistra. Ma aveva ormai capito che avrebbe dovuto reimparare tutto, che il suo braccio destro sarebbe stato inutilizzabile.
Aspettava che rientrasse il sergente. La porta si aprì ma comparve un soldato della Wehrmacht con una pistola in mano. Fece il giro dei letti uccidendo i feriti con sbrigativa freddezza. Peter finse di essere svenuto. Sentiva il colpo secco della pistola, un lamento, uno sparo, un altro breve lamento. Finché, a tre letti dal suo impugnò la pistola da sotto il lenzuolo e aspettò. Mentre il soldato tedesco arrivava al suo letto sparò e lo colpì ad una gamba. L’altro fece partire un colpo che si conficcò sul muro. Cadde un calcinaccio dall’altra parte della stanza. Il tedesco dolorante si girò e Peter gli premette la canna della pistola alla guancia. Sparò e si sentì sollevato. Si trascinò per terra a contemplare la sua vendetta. Vide sangue sul pavimento e sangue sulla mano che aveva coperto la ferita alla gamba. Sull’anulare spiccava la fascia d’oro di un anello gentilizio. Peter con rabbiosa determinazione riuscì a divincolare l’anello dal dito, mentre la mano si faceva sempre più fredda.
- Signori, ultimo lotto all’incanto oggi, una villa del cinquecento nella campagna vicentina, già dimora di Luigi Da Porto, l’autore di Romeo e Giulietta.
Fu proiettata un’immagine della casa alle spalle del banditore.
Peter Schoenberg ed Elena Clemente impugnarono le palette.
Filippo Lovato
Il martelletto colpì il legno e il banditore, indicando l’uomo in vestito grigio nella prima fila a sinistra, disse:
- Aggiudicato al signore col numero 40 qui davanti.
I commessi sollevarono dal cavalletto il quadro con una rappresentazione di Marte e Venere sfiniti dall’amore, e lo portarono via, mentre altri due commessi impettiti, in divisa nera, erano già pronti a issare, sullo stesso cavalletto, un altro quadro, un bacio di un ragazzo e una ragazza ambiguamente androgina, che un ironico pittore inglese dell’Ottocento aveva intitolato “You kiss by the book”.
La sala d’aste, nel centro di Milano, non era piena. La platea, divisa in due dal corridoio centrale, era per buona parte seduta sul lato sinistro. A destra c’erano poche persone. Al centro della seconda fila (la prima , la terza e la quarta erano completamente vuote), sedeva un uomo anziano, asciutto, col viso scavato, gli occhi duri azzurro cielo, i capelli bianchissimi pettinati all’indietro, in doppiopetto nero, cravatta rosso sangue e camicia bianca. Aveva un fermacravatte d’oro, gemelli d’oro e un anellone con un grosso rubino, del tipo di quelli che appartengono ai cadetti di antiche casate nobiliari. Alla destra del vecchio, un ragazzo di venticinque anni, anch’egli in completo nero, folta chioma corvina, malgrado la laurea in legge a Stanford, aveva l’ingrato compito di reggere una piccola ciotola di vetro, piena di pistacchi, che doveva passare a suo nonno, ogniqualvolta riceveva un ordine secco sottovoce o un piccolo colpo alla scarpa. Ogni dieci minuti, a seconda di quanto nervoso fosse il vecchio, il brillante avvocato riceveva l’ordine, spaccava il guscio già aperto del pistacchio, metteva tre frutti nella mano sinistra di suo nonno. Il vecchio cominciava a mangiarne uno, e assaporava il piacere di frantumare la pasta della nocciolina. Masticava poco e mandava giù. Subito dopo ne prendeva un altro. E giù. I pistacchi erano il suo vizio. Non aveva mai fumato. Beveva pochi sorsi di vini pregiati e mangiava il minimo indispensabile. Aveva perso l’uso del braccio destro che pendeva inerte sul bracciolo, quindi non era più in grado di mangiare da solo i pistacchi. Anzi, in realtà, non era mai stato in grado di farlo.
Il martelletto colpì di nuovo il legno e il dipinto con il bacio fu aggiudicato per ottantatremila euro a un ometto grasso alla sinistra che sollevò i pugni come se avesse vinto una gara, un gesto che gli meritò un’occhiataccia dall’anziana signora accanto a lui, vestita in un elegante abito a fiori di seta, con un pesante bracciale d’oro e acquemarine, la chioma raccolta in uno stretto chignon e una piccola casacca di lana bianca sulle spalle. Alla sua sinistra una ragazza giovane, di diciott’anni, la accompagnava. Vestita in un abito lungo color tortora, non sembrava a suo agio. La signora anziana le sussurrò all’orecchio:
- Vedi cara, non cercare marito tra quelli che esultano per essersi accaparrati un qualsiasi oggetto durante un’asta. Nella migliore delle ipotesi sono dei cafoni. Nella peggiore pensavano che non ce l’avrebbero mai fatta e un pensiero come questo non fa ben sperare sulla reale consistenza del loro patrimonio.
La ragazza, la sua allieva preferita, annuì e, quando il viso della vecchia le si fu allontanato, sospirò.
L’anziano con i capelli bianchi a destra e la signora con il vestito a fiori sulla sinistra non avrebbero spostato le loro palette, la 22 e la 18, dalle ginocchia fino alla fine dell’asta, quando, dopo che tutti gli arredi erano stati battuti, sarebbe andata all’incanto la villa, una costruzione palladiana con timpano e colonne in un paesino della provincia vicentina.
Lui aveva esibito un passaporto inglese con il nome Mark Clemens e aveva lasciato intendere che era un ricco imprenditore attivo nel campo delle costruzioni residenziali di lusso. Ma nella sua villa di Antigua c’erano altri passaporti, uno svizzero (Henry Boyle, orafo), uno sudafricano (James J. Darkbloom, latifondista, allevatore di bestiame), uno di Hong Kong (Michael Monroe, import – esport) che, dall’annessione della colonia alla Cina, aveva utilizzato molto meno.
L’Interpol lo inseguiva con eroica caparbietà cercando di capire, ogni volta che un nuovo protagonista entrava nel gioco del traffico internazionale d’armi e droga, se quella fosse un’altra identità fittizia dell’uomo che mangiava pistacchi o se ci fosse effettivamente un altro personaggio che spostava droga tra il medio – oriente e l’occidente e armi, occultate chissà come, tra l’occidente e tutti i focolai di guerra che ardevano sul mappamondo.
Mark Clemens non si spostava quasi mai da Antigua. Lì aveva la sua base operativa. Da lì amministrava i traffici che gli rendevano milioni. Solo il suo braccio destro, in senso letterale oltre che figurato, aveva l’onore di sbucciargli i pistacchi.
La contessa Elena Clemente di Bentivoglio non era sposata. Viveva amministrando un esclusivo collegio dove una ristretta elite amante delle buone maniere e di un certo bon ton d’altri tempi, spediva le figlie a imparare a rispettare i mariti, amministrare una conversazione, preparare una cena come si deve, intrecciare fiori secchi in eleganti centrotavola e in allegre corone natalizie. La villa di Montorso era stata di proprietà della famiglia di suo cugino Enrico, morto sulle scale di quella costruzione.
La contessina Elena, durante l’estate, arrivava nel vicentino con i genitori per trascorrervi le settimane più calde dell’anno. C’erano la frescura di un parco lussureggiante e frondoso, la pace della campagna, una fontana dentro cui sguazzare durante i pomeriggi di sole spietato e un bel sambernardo scodinzolante che vi girava attorno in cerca di refrigerio. Un giorno il cugino Enrico, di ritorno da una passeggiata in bicicletta, le prese la mano e l’accompagnò sotto un tiglio.
- Che fai ?
- Elena, oh cara Elena...
- Lasciami, lasciala.
- Elena, Elena, Elena...
La abbracciò e la costrinse sul prato fermandole i polsi mentre le baciava il viso sfuggente. Esausta Elena gli cedette e le labbra si congiunsero. A quel punto i muscoli delle braccia persero forza, Enrico poté abbracciarla e ricevere l’abbraccio di lei.
Iniziò così il primo e unico amore della sua vita. Enrico era turbato da tempo dalla bellezza di quella ragazzina studiosa e immusonita, così seria e diligente, che si sedeva sempre sulla punta della sedia con la schiena perfettamente diritta e non allargava mai i gomiti quando tagliava la bistecca. Non la vedevi correre e non la vedevi ridere, perché quando rideva, non spalancava la bocca, la apriva quel tanto che era necessario e, in sovrappiù, vi passava una mano davanti, quasi avesse a vergognarsene.
Le risate scorsero in rivoli frequenti dopo quel bacio. I due si spruzzavano d’acqua, giocavano a rincorrersi per il parco. Profanarono la cappella di famiglia riempiendosi di baci e carezze, animarono le cupe volte della cantina ridendo divertiti e un bel giorno gemettero nella camera degli ospiti dove Elena aveva trasferito i libri ormai trascurati e i suoi vestiti troppo casti.
Nel primo pomeriggio di un giorno di sole radioso che pareva avere incendiato il cielo, Elena ed Enrico tornavano sazi da una passeggiata per i colli vicini. Sul portone d’ingresso Enrico l’abbracciò di nuovo per baciarla. Elena lo respinse allegramente e cominciò a correre verso la villa. Enrico subito dietro. Il cane si scosse dal sonno e li guardò attraversare il viale d’ingresso mentre le scarpe crepitavano sulla ghiaia. Enrico la riacciuffò proprio sulla sommità della scalinata d’ingresso e lei lo respinse di nuovo. Il cugino indietreggiò, perse l’equilibrio e cadde all’indietro sui gradini finendo lungo disteso alla base della rampa di scale. Elena gridò. I genitori di Enrico e i suoi si svegliarono dal riposo pomeridiano, accorsero una cameriera e un contadino e fu chiamata un’ambulanza. I dottori altro non poterono fare che constatare la morte del ragazzo per un fatale colpo alla nuca.
Elena, tra lacrime inconsolabili, raccontò che Enrico era scivolato all’indietro mentre la inseguiva su per le scale. Lei si era girata e d’improvviso aveva visto la mano che la stava acciuffando alzarsi verso il cielo, le braccia agitarsi in aria, il corpo allontanarsi e, un secondo dopo, il cadavere alla fine della scala.
Quelle stesse scale, vent’anni prima, avevano sopportato il peso di altri morti. Prima che la famiglia di Enrico acquisisse e restaurasse la villa che avrebbe venduto dopo la morte del primogenito, il salone diroccato era stato un ospedale da campo di una squadra di soldati inglesi che affiancava la resistenza italiana contro i tedeschi in ritirata.
Durante un’incursione a una colonna del Reich che recedeva verso nord il soldato inglese Peter Schoenberg, occhi azzurri e famiglia tedesca di origine ebraica emigrata dalla Germania qualche settimana dopo al notte dei cristalli, era stato ferito a braccio destro. Soccorso dal suo sergente era finito dentro la villa, su una delle trenta brande allineate ai muri del salone diroccato. Dal muro pendevano calcinacci che minacciavano di cadere sui feriti a ogni colpo di mortaio che si avvertiva in lontananza. C’era un olezzo di medicinali e un gemito sommesso e continuo. Peter Schoenberg soffrì dolori agghiaccianti quando il proiettile entrò nella carne e quando il medico cercò di estrarlo. Ebbe la febbre alta, vomitò e non mangiava nulla. Il suo sergente si prese cura di lui, e dei sette del suo reparto che erano stati feriti, con l’amorevole dedizione di un padre. Un uomo alto, buono, sempre di buon umore che aveva sostituito i pistacchi ai sigari responsabili della sua inguaribile tosse secca. Con una risata gorgogliante ordinò a ciascuno dei feriti inappetenti di mangiare i pistacchi che portava sempre con sé. Al soldato Schoenberg li preparava già sbucciati e glieli metteva in bocca, uno a uno. Peter riprese lentamente forza e maturò una grande riconoscenza per quell’uomo che l’aveva accudito e al quale, in fin dei conti, doveva la vita.
Un giorno si sentirono degli spari fuori dalla villa, sullo spiazzo davanti al colonnato. Mitragliate. I soldati inglesi di guardia e alcuni ufficiali medici caddero davanti alle colonne durante l’assalto. Il sergente uscì per aiutare, dopo aver lasciato una pistola ai feriti che potevano usarla.
Peter era disperato e impaurito, perché non sapeva sparare con la sinistra, anzi non sapeva fare nulla con la sinistra. Ma aveva ormai capito che avrebbe dovuto reimparare tutto, che il suo braccio destro sarebbe stato inutilizzabile.
Aspettava che rientrasse il sergente. La porta si aprì ma comparve un soldato della Wehrmacht con una pistola in mano. Fece il giro dei letti uccidendo i feriti con sbrigativa freddezza. Peter finse di essere svenuto. Sentiva il colpo secco della pistola, un lamento, uno sparo, un altro breve lamento. Finché, a tre letti dal suo impugnò la pistola da sotto il lenzuolo e aspettò. Mentre il soldato tedesco arrivava al suo letto sparò e lo colpì ad una gamba. L’altro fece partire un colpo che si conficcò sul muro. Cadde un calcinaccio dall’altra parte della stanza. Il tedesco dolorante si girò e Peter gli premette la canna della pistola alla guancia. Sparò e si sentì sollevato. Si trascinò per terra a contemplare la sua vendetta. Vide sangue sul pavimento e sangue sulla mano che aveva coperto la ferita alla gamba. Sull’anulare spiccava la fascia d’oro di un anello gentilizio. Peter con rabbiosa determinazione riuscì a divincolare l’anello dal dito, mentre la mano si faceva sempre più fredda.
- Signori, ultimo lotto all’incanto oggi, una villa del cinquecento nella campagna vicentina, già dimora di Luigi Da Porto, l’autore di Romeo e Giulietta.
Fu proiettata un’immagine della casa alle spalle del banditore.
Peter Schoenberg ed Elena Clemente impugnarono le palette.
Filippo Lovato
martedì 19 ottobre 2010
mercoledì 13 ottobre 2010
Tutte le Storie sono storie d'amore
Fondazione Claudio Buziol
e
Comune di Montorso Vicentino
Tutte le storie sono storie d'amore
Workshop di scrittura
Villa da Porto - Montorso Vicentino
16 e 17 ottobre 2010
François Truffaut raccontava di sognare spesso storie bellissime, film che avrebbe voluto fare, ma al mattino dopo, immancabilmente, non era in grado di ricordarne la trama. Allora una sera, prima di addormentarsi, mise sul comodino un foglio di carta e una penna: quella notte in qualche modo si sarebbe svegliato nel mezzo del sonno e avrebbe avuto finalmente la possibilità di scrivere la storia che stava sognando. Successe proprio così. In quello stato di semi-coscienza che a volte ci capita quando stiamo dormendo, Truffaut riuscì dunque a svegliarsi ed ebbe la forza di prendere carta e penna prima di addormentarsi nuovamente, felice per aver finalmente scritto la storia di tutte le storie, da cui avrebbe tratto il suo capolavoro. Al mattino, quando si svegliò, la prima cosa che fece, emozionato e pieno di aspettative, fu quindi quella di controllare il foglio di carta sul comodino per leggere la trama di quella storia. C’era scritto soltanto: “un ragazzo incontra una ragazza”.
Ecco, cominciamo da qui: un ragazzo incontra una ragazza.
La Fondazione Claudio Buziol e il Comune di Montorso Vicentino indicono la selezione per partecipare a Tutte le storie sono storie d'amore, un workshop di scrittura tenuto da Renzo di Renzo e Marco Franzoso, che si terrà sabato 16 e domenica 17 ottobre a Montorso Vicentino.
Il laboratorio, aperto a tutti, si svolgerà all'interno della prestigiosa Villa da Porto, anticamente dimora di Luigi da Porto, autore della prima versione inedita della storia di Romeo e Giulietta.
Scarica qui il bando e il programma delle due giornate.
Il workshop fa parte delle attività di Provincia Italiana, Laboratorio per ripensare il territorio, Evento collaterale della 12. Mostra Internazionale di Architettura
realizzato in collaborazione con Fuoribiennale
promosso dal Comune di Montorso Vicentino e dalla Provincia di Vicenza.
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