- Duecentoventimila e uno... duecentoventimila e due... Nessun ripensamento, signori ?... Ultima chance.... Duecentoventimila e tre !
Il martelletto colpì il legno e il banditore, indicando l’uomo in vestito grigio nella prima fila a sinistra, disse:
- Aggiudicato al signore col numero 40 qui davanti.
I commessi sollevarono dal cavalletto il quadro con una rappresentazione di Marte e Venere sfiniti dall’amore, e lo portarono via, mentre altri due commessi impettiti, in divisa nera, erano già pronti a issare, sullo stesso cavalletto, un altro quadro, un bacio di un ragazzo e una ragazza ambiguamente androgina, che un ironico pittore inglese dell’Ottocento aveva intitolato “You kiss by the book”.
La sala d’aste, nel centro di Milano, non era piena. La platea, divisa in due dal corridoio centrale, era per buona parte seduta sul lato sinistro. A destra c’erano poche persone. Al centro della seconda fila (la prima , la terza e la quarta erano completamente vuote), sedeva un uomo anziano, asciutto, col viso scavato, gli occhi duri azzurro cielo, i capelli bianchissimi pettinati all’indietro, in doppiopetto nero, cravatta rosso sangue e camicia bianca. Aveva un fermacravatte d’oro, gemelli d’oro e un anellone con un grosso rubino, del tipo di quelli che appartengono ai cadetti di antiche casate nobiliari. Alla destra del vecchio, un ragazzo di venticinque anni, anch’egli in completo nero, folta chioma corvina, malgrado la laurea in legge a Stanford, aveva l’ingrato compito di reggere una piccola ciotola di vetro, piena di pistacchi, che doveva passare a suo nonno, ogniqualvolta riceveva un ordine secco sottovoce o un piccolo colpo alla scarpa. Ogni dieci minuti, a seconda di quanto nervoso fosse il vecchio, il brillante avvocato riceveva l’ordine, spaccava il guscio già aperto del pistacchio, metteva tre frutti nella mano sinistra di suo nonno. Il vecchio cominciava a mangiarne uno, e assaporava il piacere di frantumare la pasta della nocciolina. Masticava poco e mandava giù. Subito dopo ne prendeva un altro. E giù. I pistacchi erano il suo vizio. Non aveva mai fumato. Beveva pochi sorsi di vini pregiati e mangiava il minimo indispensabile. Aveva perso l’uso del braccio destro che pendeva inerte sul bracciolo, quindi non era più in grado di mangiare da solo i pistacchi. Anzi, in realtà, non era mai stato in grado di farlo.
Il martelletto colpì di nuovo il legno e il dipinto con il bacio fu aggiudicato per ottantatremila euro a un ometto grasso alla sinistra che sollevò i pugni come se avesse vinto una gara, un gesto che gli meritò un’occhiataccia dall’anziana signora accanto a lui, vestita in un elegante abito a fiori di seta, con un pesante bracciale d’oro e acquemarine, la chioma raccolta in uno stretto chignon e una piccola casacca di lana bianca sulle spalle. Alla sua sinistra una ragazza giovane, di diciott’anni, la accompagnava. Vestita in un abito lungo color tortora, non sembrava a suo agio. La signora anziana le sussurrò all’orecchio:
- Vedi cara, non cercare marito tra quelli che esultano per essersi accaparrati un qualsiasi oggetto durante un’asta. Nella migliore delle ipotesi sono dei cafoni. Nella peggiore pensavano che non ce l’avrebbero mai fatta e un pensiero come questo non fa ben sperare sulla reale consistenza del loro patrimonio.
La ragazza, la sua allieva preferita, annuì e, quando il viso della vecchia le si fu allontanato, sospirò.
L’anziano con i capelli bianchi a destra e la signora con il vestito a fiori sulla sinistra non avrebbero spostato le loro palette, la 22 e la 18, dalle ginocchia fino alla fine dell’asta, quando, dopo che tutti gli arredi erano stati battuti, sarebbe andata all’incanto la villa, una costruzione palladiana con timpano e colonne in un paesino della provincia vicentina.
Lui aveva esibito un passaporto inglese con il nome Mark Clemens e aveva lasciato intendere che era un ricco imprenditore attivo nel campo delle costruzioni residenziali di lusso. Ma nella sua villa di Antigua c’erano altri passaporti, uno svizzero (Henry Boyle, orafo), uno sudafricano (James J. Darkbloom, latifondista, allevatore di bestiame), uno di Hong Kong (Michael Monroe, import – esport) che, dall’annessione della colonia alla Cina, aveva utilizzato molto meno.
L’Interpol lo inseguiva con eroica caparbietà cercando di capire, ogni volta che un nuovo protagonista entrava nel gioco del traffico internazionale d’armi e droga, se quella fosse un’altra identità fittizia dell’uomo che mangiava pistacchi o se ci fosse effettivamente un altro personaggio che spostava droga tra il medio – oriente e l’occidente e armi, occultate chissà come, tra l’occidente e tutti i focolai di guerra che ardevano sul mappamondo.
Mark Clemens non si spostava quasi mai da Antigua. Lì aveva la sua base operativa. Da lì amministrava i traffici che gli rendevano milioni. Solo il suo braccio destro, in senso letterale oltre che figurato, aveva l’onore di sbucciargli i pistacchi.
La contessa Elena Clemente di Bentivoglio non era sposata. Viveva amministrando un esclusivo collegio dove una ristretta elite amante delle buone maniere e di un certo bon ton d’altri tempi, spediva le figlie a imparare a rispettare i mariti, amministrare una conversazione, preparare una cena come si deve, intrecciare fiori secchi in eleganti centrotavola e in allegre corone natalizie. La villa di Montorso era stata di proprietà della famiglia di suo cugino Enrico, morto sulle scale di quella costruzione.
La contessina Elena, durante l’estate, arrivava nel vicentino con i genitori per trascorrervi le settimane più calde dell’anno. C’erano la frescura di un parco lussureggiante e frondoso, la pace della campagna, una fontana dentro cui sguazzare durante i pomeriggi di sole spietato e un bel sambernardo scodinzolante che vi girava attorno in cerca di refrigerio. Un giorno il cugino Enrico, di ritorno da una passeggiata in bicicletta, le prese la mano e l’accompagnò sotto un tiglio.
- Che fai ?
- Elena, oh cara Elena...
- Lasciami, lasciala.
- Elena, Elena, Elena...
La abbracciò e la costrinse sul prato fermandole i polsi mentre le baciava il viso sfuggente. Esausta Elena gli cedette e le labbra si congiunsero. A quel punto i muscoli delle braccia persero forza, Enrico poté abbracciarla e ricevere l’abbraccio di lei.
Iniziò così il primo e unico amore della sua vita. Enrico era turbato da tempo dalla bellezza di quella ragazzina studiosa e immusonita, così seria e diligente, che si sedeva sempre sulla punta della sedia con la schiena perfettamente diritta e non allargava mai i gomiti quando tagliava la bistecca. Non la vedevi correre e non la vedevi ridere, perché quando rideva, non spalancava la bocca, la apriva quel tanto che era necessario e, in sovrappiù, vi passava una mano davanti, quasi avesse a vergognarsene.
Le risate scorsero in rivoli frequenti dopo quel bacio. I due si spruzzavano d’acqua, giocavano a rincorrersi per il parco. Profanarono la cappella di famiglia riempiendosi di baci e carezze, animarono le cupe volte della cantina ridendo divertiti e un bel giorno gemettero nella camera degli ospiti dove Elena aveva trasferito i libri ormai trascurati e i suoi vestiti troppo casti.
Nel primo pomeriggio di un giorno di sole radioso che pareva avere incendiato il cielo, Elena ed Enrico tornavano sazi da una passeggiata per i colli vicini. Sul portone d’ingresso Enrico l’abbracciò di nuovo per baciarla. Elena lo respinse allegramente e cominciò a correre verso la villa. Enrico subito dietro. Il cane si scosse dal sonno e li guardò attraversare il viale d’ingresso mentre le scarpe crepitavano sulla ghiaia. Enrico la riacciuffò proprio sulla sommità della scalinata d’ingresso e lei lo respinse di nuovo. Il cugino indietreggiò, perse l’equilibrio e cadde all’indietro sui gradini finendo lungo disteso alla base della rampa di scale. Elena gridò. I genitori di Enrico e i suoi si svegliarono dal riposo pomeridiano, accorsero una cameriera e un contadino e fu chiamata un’ambulanza. I dottori altro non poterono fare che constatare la morte del ragazzo per un fatale colpo alla nuca.
Elena, tra lacrime inconsolabili, raccontò che Enrico era scivolato all’indietro mentre la inseguiva su per le scale. Lei si era girata e d’improvviso aveva visto la mano che la stava acciuffando alzarsi verso il cielo, le braccia agitarsi in aria, il corpo allontanarsi e, un secondo dopo, il cadavere alla fine della scala.
Quelle stesse scale, vent’anni prima, avevano sopportato il peso di altri morti. Prima che la famiglia di Enrico acquisisse e restaurasse la villa che avrebbe venduto dopo la morte del primogenito, il salone diroccato era stato un ospedale da campo di una squadra di soldati inglesi che affiancava la resistenza italiana contro i tedeschi in ritirata.
Durante un’incursione a una colonna del Reich che recedeva verso nord il soldato inglese Peter Schoenberg, occhi azzurri e famiglia tedesca di origine ebraica emigrata dalla Germania qualche settimana dopo al notte dei cristalli, era stato ferito a braccio destro. Soccorso dal suo sergente era finito dentro la villa, su una delle trenta brande allineate ai muri del salone diroccato. Dal muro pendevano calcinacci che minacciavano di cadere sui feriti a ogni colpo di mortaio che si avvertiva in lontananza. C’era un olezzo di medicinali e un gemito sommesso e continuo. Peter Schoenberg soffrì dolori agghiaccianti quando il proiettile entrò nella carne e quando il medico cercò di estrarlo. Ebbe la febbre alta, vomitò e non mangiava nulla. Il suo sergente si prese cura di lui, e dei sette del suo reparto che erano stati feriti, con l’amorevole dedizione di un padre. Un uomo alto, buono, sempre di buon umore che aveva sostituito i pistacchi ai sigari responsabili della sua inguaribile tosse secca. Con una risata gorgogliante ordinò a ciascuno dei feriti inappetenti di mangiare i pistacchi che portava sempre con sé. Al soldato Schoenberg li preparava già sbucciati e glieli metteva in bocca, uno a uno. Peter riprese lentamente forza e maturò una grande riconoscenza per quell’uomo che l’aveva accudito e al quale, in fin dei conti, doveva la vita.
Un giorno si sentirono degli spari fuori dalla villa, sullo spiazzo davanti al colonnato. Mitragliate. I soldati inglesi di guardia e alcuni ufficiali medici caddero davanti alle colonne durante l’assalto. Il sergente uscì per aiutare, dopo aver lasciato una pistola ai feriti che potevano usarla.
Peter era disperato e impaurito, perché non sapeva sparare con la sinistra, anzi non sapeva fare nulla con la sinistra. Ma aveva ormai capito che avrebbe dovuto reimparare tutto, che il suo braccio destro sarebbe stato inutilizzabile.
Aspettava che rientrasse il sergente. La porta si aprì ma comparve un soldato della Wehrmacht con una pistola in mano. Fece il giro dei letti uccidendo i feriti con sbrigativa freddezza. Peter finse di essere svenuto. Sentiva il colpo secco della pistola, un lamento, uno sparo, un altro breve lamento. Finché, a tre letti dal suo impugnò la pistola da sotto il lenzuolo e aspettò. Mentre il soldato tedesco arrivava al suo letto sparò e lo colpì ad una gamba. L’altro fece partire un colpo che si conficcò sul muro. Cadde un calcinaccio dall’altra parte della stanza. Il tedesco dolorante si girò e Peter gli premette la canna della pistola alla guancia. Sparò e si sentì sollevato. Si trascinò per terra a contemplare la sua vendetta. Vide sangue sul pavimento e sangue sulla mano che aveva coperto la ferita alla gamba. Sull’anulare spiccava la fascia d’oro di un anello gentilizio. Peter con rabbiosa determinazione riuscì a divincolare l’anello dal dito, mentre la mano si faceva sempre più fredda.
- Signori, ultimo lotto all’incanto oggi, una villa del cinquecento nella campagna vicentina, già dimora di Luigi Da Porto, l’autore di Romeo e Giulietta.
Fu proiettata un’immagine della casa alle spalle del banditore.
Peter Schoenberg ed Elena Clemente impugnarono le palette.
Filippo Lovato
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